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La religiosità nella letteratura giapponese: Natsume Sooseki

di Anna Bugnone

Natsume Sooseki
Natsume Sooseki

INDICE
1 INTRODUZIONE

2 NOTIZIE BIOGRAFICHE

3 AMBIENTE CULTURALE DI NATSUME SOOSEKI

4 EVOLUZIONE SPIRITUALE DI NATSUME SOOSEKI ATTRAVERSO LE SUE OPERE

5 LA RELIGIOSITÀ NELLE OPERE DI NATSUME SOOSEKI

5.1 KUSAMAKURA – Il romanzo alla maniera di un haiku

5.2 MON – Sooseki e le religioni organizzate

5.3 KOOJIN – Morte, pazzia o religione?

5.4 MEIAN – La soluzione incompleta

6 CONCLUSIONE

7 BIBLIOGRAFIA

APPENDICI

A.1 PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE DI “HIGAN SUGI MADE”

A.2 FIN DOPO L’EQUINOZIO DI PRIMAVERA

A.3 IN UN GIORNO DI PIOGGIA

A.4 TESTI ORIGINALI

1 INTRODUZIONE
Ci siamo domandati spesso perché la letteratura giapponese presenti caratteristiche così diverse dalle varie letterature occidentali. Non parliamo soltanto della letteratura del passato che, appartenendo ad un paese già isolato dal resto del mondo per motivi geografici prima, e politici poi, riflette naturalmente gusti e mentalità particolari dell’ambiente “chiuso” che l’ha prodotta. Parliamo soprattutto della letteratura giapponese moderna, intendendo con questo termine tutta la produzione letteraria posteriore alla Restaurazione Meiji del 1868.

A partire da questa data il Giappone si sottopone al gigantesco sforzo di assimilare la nostra cultura e nel giro di pochissime generazioni non solo si è impadronito delle nostre conquiste tecniche, ma le ha perfezionate e superate. Il Giappone è oggi un fattore di primo piano nella politica e nell’economia internazionale, eppure la cultura di questo paese è ancora per noi occidentali qualcosa di estraneo, quasi un mistero inaccessibile.

Leggendo i romanzi di scrittori giapponesi moderni, come ad esempio Tanizaki Jun’ichiroo o Kawabata Yasunari, che pur si sono largamente ispirati all’occidente, notiamo in essi, prima o poi, la presenza di un diaframma che la nostra comprensione difficilmente può superare. O, più precisamente, ci rendiamo conto che esso può essere superato solo con un salto di mentalità.

Ciò non è facile perché la mentalità giapponese trae la sua origine da una cultura antichissima, le cui matrici si possono far risalire alla tradizione shintoista, sulla quale venne ad innestarsi il pensiero filosofico indiano arricchito, nel passaggio obbligato attraverso la Cina, con valori confuciani e taoisti.

Non sembra esrazione sostenere, come ha fatto qualcuno[1], che per capire la letteratura, ed in particolare la poesia giapponese, “occorrerebbero anni di inconscio assorbimento di tutta la cultura dell’India, della Cina e del Giappone.”

Senza voler entrare qui nei dettagli di quei grandi sistemi filosofico-religiosi che concorsero in diversa misura a plasmare la mentalità giapponese attraverso i secoli, ricorderemo soltanto, a grandi linee, il loro contributo alla formazione di quei particolari ideali estetico-religiosi che stanno alla base di tutta la produzione artistica giapponese.

La caratteristica più evidente della mentalità giapponese, che costituisce lo sfondo di tutte le manifestazioni artistiche sia del passato che del presente 3è, senza dubbio, il profondo amore per la Natura, radicato nell’anima giapponese da tempi antichissimi.

Ispirato ed alimentato da un ambiente tra i più incantevoli della terra[2] , esso trova la sua prima espressione nella religione shintoista, secondo la quale ogni aspetto della natura è oggetto di culto, in quanto personificazione di una particolare divinità[3]

Nell’epoca Heian (794-1186), in seguito alla penetrazione del Buddhismo in Giappone (552) ed alla sua diffusione tra le classi colte, il gioioso sentimento della natura cede il posto ad un nuovo ideale estetico: il cosiddetto mono no aware (lett. il turbamento, la commozione suscitata dalle cose).

Il concetto buddhista dell’impermanenza di tutte le cose dà luogo ad una specie di Weltanschauung per cui l’io si trasporta nelle cose del mondo ma, nel momento stesso in cui ne ammira la beltà, il pensiero della loro caducità lo assale portando con sé un soffio di dolce malinconia.

Questo sentimento pervade tutta la letteratura e l’arte del periodo Heian, riflettendosi soprattutto nele antologie poetiche, come ad esempio ci è dimostrato dalle poesie di Ariwara no Narihira (826-881) contenute nel Kokinshuu.

Nell’epoca Kamakura (1186-1333) il Buddhismo gode di grande prestigio in Giappone ed è considerato l’unica dottrina apportatrice di sollievo e di pace allo spirito. Tra le molte sette buddhiste, quella che conosce la maggior diffusione è quella Zen (cinese ch’an, sanscrito dhyana o meditazione), dottrina intuitiva e meditativa sorta dal connubio tra buddhismo mahayanico e Taoismo cinese[4].

Lo Zen rifiuta testi e canoni scritti ed afferma che la verità va intesa come una conquista che lo spirito deve attuare attraverso una profonda introspezione. Questa dottrina che inizialmente conquista la classe militare (bushi)[5] per la sua semplicità ed immediatezza, penetrerà più tardi a fondo nella vita materiale, morale e artistica del paese.

Noi pensiamo che la conoscenza del Buddhismo Zen sia indispensabile per capire la cultura, ed in particolare la letteratura e la poesia del Giappone dal periodo Tokugawa in poi.

Sullo Zen sono stati scritti centinaia di libri e perciò non riteniamo opportuno esporre in questa sede il contenuto di tale dottrina. Diremo soltanto che, senza una profonda conoscenza dello Zen, è impossibile afferrare lo spirito di quelle brevissime composizioni poetiche che sono gli haiku di Bashoo, Issa o Buson[6].

Come non è possibile gustare la raffinatezza tecnica di una pittura sumi e[7] od il profondo significato insito nel rituale del cha no yu o cerimonia del té[8].

Anche i principi informativi dell’architettura[9] o l’atmosfera particolare suggerita dai giardini di sabbia e rocce[10] sono incomprensibili per chi non conosce lo Zen.

Tutta la cultura giapponese è permeata di Zen. Anche nella vita pratica, la scrittura con il pennello che s’insegna ai bambini nelle scuole, il modo di disporre i fiori nelle abitazioni (ikebana), o certi sport come il kendoo od il juudoo, sono tutte attività che hanno legami profondi con lo Zen e sono da esse disciplinate.

Il Buddhismo Zen deve la sua fortuna la fatto di non essere una religione o una filosofia in senso proprio, ma piuttosto una visione particolare della vita. Secondo questa visione, l’uomo è parte integrante dell’universo che lo circonda. Anche l’intelligenza umana non è che un aspetto dell’intero organismo complicato ed equilibrato del mondo naturale, in cui non esistono divisioni tra spirito e natura, soggetto ed oggetto, bene e male, ma anzi tutti gli opposti si fondono e si armonizzano in un flusso incessante di vita.

Forse proprio in questo sta la profonda differenza tra la cultura occidentale e quella orientale: mentre noi avvertiamo una profonda discrepanza tra spirito e natura e sentiamo continuamente la necessità di operare con la nostra intelligenza sulla materia inerte, nella cultura orientale, e in quella giapponese in particolare, lo spirito si sente a proprio agio nella natura e non cerca di intromettersi nel corso naturale degli eventi, ma si limita ad osservarli con un atteggiamento pienamente ricettivo.

Questo modo di considerare la vita si esprime in tutte le arti ed in modo particolare nella letteratura: è un punto a cui dobbiamo sempre far riferimento accostandoci alle opere dei grandi romanzieri moderni. Lo Zen costituisce il sottofondo di quasi tutta la loro produzione letteraria, senza che essi, spesso, lo dichiarino esplicitamente o addirittura lo vogliano ammettere a se stessi.

Un esempio eloquente è rappresentato da Natsume Sooseki, scrittore che amò definirsi ateo e manifestò ripetutamente il suo distacco da ogni religione formale: eppure le sue opere sono permeate di spiritualità Zen.

Questa dottrina, all’inizio, non fu per lui che uno dei tanti elementi del suo vasto bagaglio culturale.

In seguito, di pari passo con la sua maturazione artistica, e con l’intervento di circostanze dolorose che segnarono la sua vita, mentre da un lato si approfondì la sua problematica in senso religioso, dall’altra egli si convinse sempre più della validità di quei principi che giacevano sepolti dentro di lui, come retaggio inconscio di una lunga tradizione culturale. Ed ecco che negli ultimi suoi romanzi questi ideali rivivono per indicare una soluzione non solo all’artista ma anche, ciò che più conta, all’uomo Sooseki, che per tutta la vita, com’egli confessò negli ultimi giorni, era stato alla ricerca di una Via.

2 NOTIZIE BIOGRAFICHE
Natsume Kinnosuke, meglio conosciuto con il suo nome d’arte Sooseki, nacque a Tokyo nel 1867. Suo padre era un cittadino benestante, detentore della carica di nanushi, titolo ereditario molto ambito e rispettato a quei tempi[11].

Le fortune della famiglia, tuttavia, declinarono rapidamente in seguito alla Restaurazione Imperiale dell’anno successivo.

La sua nascita non fu accolta con gioia, non soltanto perché era l’ultimo di cinque figli, ma perché i genitori, già avanti con gli anni, si vergognarono profondamente (soprattutto la madre) di avere un bambino alla loro età. Il piccino fu così immediatamente dato a balia ad una negoziante di provincia e quindi, nel 1868, adottato da una coppia senza figli di nome Shiobara, legata ai Natsume da vincoli di gratitudine[12].

Alcuni anni dopo, in seguito a squallidi eventi cui il bambino fu costretto ad assistere, gli Shiobara divorziarono ed il piccolo fu restituito ai genitori, all’età di otto anni. Ecco come, negli ultimi anni della sua vita, sooseki ricordò la sua triste infanzia: “Nacqui ai miei genitori nei primi anni della loro vecchiaia. Fui il loro ultimo figlio. Ancora oggi mi sento raccontare la storia che mia madre si vergognò di avere un bimbo alla sua età… Comunque, poco dopo fui mandato ad una coppia come loro figlio adottivo… Rimasi con loro fino all’età di otto o nove anni, quando si incomincia a capire qualcosa. C’erano dei problemi tra di loro, e così fu deciso che io dovessi essere restituito ai miei genitori… Io non sapevo di essere tornato a casa mia e continuai a pensare, come prima, che i miei genitori fossero i miei nonni. Senza alcun sospetto continuai a chiamarli “nonna” e “nonno”. Essi, da parte loro, forse pensando che sarebbe stato strano cambiare le cose improvvisamente, non dicevano nulla quando io li chiamavo così. Non mi coccolarono come fanno i genitori con i loro figli più piccoli… Anzi ricordo che mio padre mi trattava duramente… Una notte avvenne questo fatto. Dormivo solo in una stanza quando fui svegliato da qualcuno che mi chiamava a bassa voce. Spaventato, guardai la figura accovacciata al mio fianco. Era buio, cosicché non avrei potuto dire chi fosse. Essendo un bambino, rimasi a letto immobile ed ascoltai ciò che la persona aveva da dire. Allora mi accorsi che la voce apparteneva alla nostra persona di servizio. Nell’oscurità, la donna mi bisbigliò all’orecchio: “Costoro che tu pensi siano tuo nonno e tua nonna in realtà sono tuo padre e tua madre. Ti dico questo perché li ho uditi dire che tu devi aver sentito in qualche modo che essi sono i tuoi genitori, perche tu sembri preferire questa casa a quell’altra. Essi trovano ciò molto strano. Non devi dire a nessuno che ti ho detto questo. Capito?”.

Tutto ciò che dissi allora fu “Sì”, ma, nel mio cuore, ero felice.

Ero felice non perché mi era stata detta la verità, ma perché la domestica era stata gentile con me”[13].

I suoi primi anni di studio si svolsero all’insegna della tradizione classica cinese:

“Quand’ero ragazzo sapevo recitare a memoria migliaia di versi della poesia dell’epoca T’ang o Sung”[14]

Pensando però che questi studi non gli sarebbero serviti per farsi strada in una società in via di rapida occidentalizzazione, decise di sfruttare la sua abilità nel disegno e perciò, nel 1884, entrò alla Facoltà di Ingegneria dell’Università Imperiale diTtokyo con l’intenzione di diventare architetto.

Più tardi tuttavia, cambiò idea e si iscrisse alla Facoltà di Letteratura Inglese della stessa università in cui si laureò nel 1893.

La sua perfetta padronanza della lingua inglese ci è attestata da una sua traduzione, scritta nel 1891, dell’Hoojooki di Kamo no Choomei (1155-1216)[15] .

Sempre ai suoi anni di università risale la profonda amicizia con il poeta Masaoka Noboru, meglio conosciuto come Masaoka Shiki (1867-1902), il più gran nome della tradizione haiku di quel tempo[16].

Dopo aver insegnato per un breve periodo a Tokyo, nel 1895 Sooseki accettò un incarico come professore in una scuola media di Matsuyama nell’isola di Shikoku.

Questa sua prima esperienza come insegnante sarà da lui rivissuta, dieci anni dopo, nel celebre romanzo Botchan.

Molte ipotesi sono state fatte sui motivi di questa volontaria rinuncia ad una prestigiosa occupazione nella capitale per un posto di insegnante in una remota cittadina di provincia. Fra queste, degna di nota quella dell’allievo di Sooseki Komiya Toyotaka, secondo cui lo scrittore avrebbe confidato di essere andato a Matsuyama “con lo spirito di rinunciare ad ogni cosa.”[17]

L’anno seguente, sooseki si trasferì in un liceo di Kumamoto e sposò Nakame Kyooko, la figlia maggiore del capo segretario della camera dei pari. Rimase colà quattro anni finché, nel giugno del 1900, venne inviato a Londra dal ministero giapponese dell’educazione, allo scopo di perfezionarsi nella lingua inglese.

Il dover vivere per due anni in un paese straniero, solo, con il poco denaro offertogli dal governo giapponese, fu un’esperienza terribile per lui. Scriverà più tardi:

“I due anni che trascorsi a Londra furono assai spiacevoli. Ero come un cane irsuto tra gentiluomini inglesi”[18]

Provò a frequentare le lezioni all’università ma, non trovandole soddisfacenti, finì con il trascorrere la maggior parte del tempo chiuso in una stanza, leggendo furiosamente libri di ogni argomento: letterario, filosofico, psicologico, etico, scientifico, nell’ambizioso tentativo di afferrare l’essenza di una tradizione letteraria straniera.

Quando finalmente si accorse dell’impossibilità di realizzare un obiettivo così grandioso, egli decise che in futuro avrebbe trovato la sua ragion d’essere non come studioso della letteratura di un altro paese, ma come pioniere all’interno della propria cultura, le cui opinioni e standard, originali o no, sarebbero state quanto meno il risultato di una ricerca indipendente ed onesta.[19]

Egli infatti detestava l’atteggiamento di supina accettazione della cultura occidentale dimostrato dai suoi connazionali. Scrisse nel 1905:

“Sembra che sia di moda in questi tempi imitare acriticamente le opere di chiunque sia diventato famoso in occidente. Ci sarebbe molto da discutere su questo fatto. Sarebbe un peccato perdere le proprie peculiari caratteristiche e quelle del proprio paese a causa di un’eccessiva adorazione dell’occidente…”[20]

Risultato di questi due anni trascorsi a londra fu una gran quantità di appunti, da cui in seguito sooseki potè attingere materiale per le sue opere. L’intensità dello sforzo a cui si sottopose e la solitudine sofferta furono tuttavia la causa di una lunga serie di esaurimenti nervosi che si manifestarono spesso dopo il suo ritorno in Giappone nel 1903[21].

Sarebbe errato pensare che Sooseki, a causa della sua infelice esperienza in Inghilterra, serbasse astio nei confronti di questa nazione. Al contrario, egli scrisse:

“L’Inghilterra è un paese dove la libertà è davvero sacra… Comunque, benché essa ami la libertà, non c’è paese che rispetti maggiormente l’ordine. A dire il vero, non ho simpatia per l’Inghilterra. Ma devo essere onesto, sia che ami il paese o no. Non penso che ci sia un luogo al mondo così libero o così ordinato.”[22]

Dopo il suo ritorno in Giappone a sooseki fu assegnata per quattro anni la cattedra di letteratura inglese presso l’Università Imperiale di Tokyo, in seguito alle dimissioni del celebre prof. Lafcadio Hearn[23].

Pare che sooseki non fosse molto felice dell’incarico e non si ritenesse degno di succedere ad un uomo della statura di Lafcadio Hearn. Si dice, inoltre, che non riuscì a guadagnarsi le simpatie degli studenti, i quali giudicavano le sue lezioni troppo fredde e razionali rispetto allo stile “romantico” del suo predecessore[24].

Per tutti questi motivi, nel 1907 Sooseki rassegnò a sua volta le dimissioni dal mondo accademico ed entrò a far parte dello staff dell’Asahi Shinbun come scrittore di romanzi che venivano pubblicati a puntate.

La sua drastica decisione di abbandonare l’insegnamento creò molto scalpore nell’ambiente universitario. Egli stesso, in una lettera del marzo 1907 indirizzata ad un amico, ammise che avere una cattedra all’università avrebbe comportato prestigio sociale e sicurezza economica, tuttavia, confessò di essere disgustato dalla vanità dei colleghi e dichiarò di non ambire né gloria né onori di alcun genere[25].

Alcuni anni dopo avrebbe confermato questa sua dichiarazione rifiutando il dottorato ad honorem Bungaku Hakushi offertogli dal ministero dell’educazione. Il motivo principale, ch’egli non volle mai rivelare chiaramente, delle sue dimissioni, va però ricercato nel desiderio di dedicare tutto il suo tempo all’attività di romanziere. In quel periodo la sua fama era già grande in seguito alla pubblicazione di Wagahaiwa neko de aru (io sono un gatto) del 1905 sulla rivista letteraria Hototogisu (il cuculo)[26].

A questo erano seguiti altri romanzi, dei quali i più importanti sono: Rondontoo (la torre di londra) sempre del 1905, Botchan (il signorino) del 1906, Kusamakura (cuscino d’erbe) sempre del 1906 e Nowaki (vento d’autunno) del 1907. Da allora sooseki rimase scrittore di professione per l’Asahi Shinbun fino alla morte.

Iniziando con Gubijinsoo (il papavero) del 1907, Sooseki produsse circa un romanzo all’anno, rivelando una sempre maggiore maturità sia dal punto di vista stilistico, che da quello umano. Fondò un circolo letterario chiamato Yoyuuha (più che sufficiente) cui parteciparono molti altri scrittori fra cui Takayama Kyoshi (1874-1954), Ito Sachio (1864-1913) ed il poeta Masaoka Shiki.

È sorprendente osservare come tutta la produzione letteraria di sooseki sia concentrata nell’ultima decade della sua vita: la prima trilogia con sanshiroo del 1908, Sorekara (e dopo?) Del 1909, Mon (il cancello) del 1910; la seconda trilogia: Higan sugi made (fin dopo l’equinozio di primavera) del 1911-1912, Koojin (il viandante) del 1912-1913 e Kokoro (cuore) del 1914; e l’ultimo gruppo: Michikusa (erba ai margini della strada) del 1915 e Meian (luci e tenebre) del 1916, romanzo che fu lasciato incompleto.

Questa intensa produzione letteraria è ancora più degna di nota se consideriamo il fatto che durante gli ultimi dieci anni della sua vita Sooseki dovette lottare contro una lunga serie di crisi nervose che prostrarono la sua mente esasperando sempre più quella visione pessimistica della vita che gli derivava dai tristi ricordi dell’infanzia[27].

Molti studi sono stati fatti sui disturbi psichici di sooseki, che alcuni hanno definito come schizofrenia, paranoia o addirittura come a metà strada fra la schizofrenia e la mania depressiva .

C’è invece chi ritiene che fossero proprio questi disturbi mentali a stimolare l’intensa attività letteraria dell’artista[28].

Lo stesso sooseki, nella sua prefazione a bungaku ron (saggi sulla letteratura) del 1907, si augura che tali disturbi possano continuare perché:

“l’esaurimento nervoso e la pazzia mi spronano impietosamente all’attività creativa”[29]

A queste crisi nervose si aggiunsero, a partire dal 1910, le sofferenze provocate da un’ulcera allo stomaco che lo costrinsero a ripetuti ricoveri ospedalieri e, nel 1911, lo ridussero per qualche tempo in stato di coma, motivo per cui, in quell’anno, la sua produzione letteraria rimase sospesa. Ed è proprio a causa di complicazioni generate da questa malattia, unita all’insorgere, nell’ultimo anno, di una grave forma di diabete, che Sooseki morì, il 9 dicembre 1916, all’età di soli 49 anni.

3 AMBIENTE CULTURALE DI NATSUME SOOSEKI
Il periodo in cui nasce e vive Natsume Sooseki (1867-1916) è forse uno dei più turbolenti di tutta la storia del Giappone.

Nel 1853, quando le quattro navi del Commodoro Perry gettano l’ancora nella baia di Uraga, il Giappone è ancora un paese feudale, staccato dal resto del mondo in seguito ad un forzato isolamento durato quasi due secoli e mezzo[30].

Aprendosi poco a poco all’occidente, il Giappone scopre orizzonti inesplorati di civiltà e si getta a capofitto nel disperato tentativo di assimilare la cultura occidentale nel minor tempo possibile.

Le idee che arrivano dall’occidente sono assorbite in modo convulso e totale, senza né il tempo né la voglia di scegliere. C’è un desiderio incontrollato di impadronirsi delle moderne conquiste della nostra civiltà in tutti i campi: dalla scienza alla filosofia, dalla letteratura alle teorie politiche[31].

Questo processo di rinnovamento, troppo rapido, richiama ben presto una reazione ed ecco accendersi rapidamente violente fiammate di spirito nazionale, specialmente dopo il 1868, anno in cui, crollato lo shogunato, il potere viene ripristinato nelle mani del sovrano legittimo, l’imperatore, sacro simbolo dell’unità nazionale. Assistiamo quindi alla rapida evoluzione del Giappone che nel breve spazio di qualche decennio, tendendo al massimo tutte le energie, riesce a raggiungere una posizione di prestigio nell’ambito delle maggiori potenze mondiali ed a porre le basi di un impero moderno ed a realizzare l’ambizioso obiettivo Fuukoku Kyoohei (paese prospero ed esercito potente).

Questo tumultuoso processo che caratterizza l’era Meiji (1868-1912), interessa tutti i livelli della vita politica, economica, sociale e culturale del Giappone. A livello politico, assistiamo all’organizzazione di una nuova macchina amministrativa (l’oligarchia Meiji) con la conseguente centralizzazione del potere e della burocrazia[32].

Sul piano economico, accanto all’incremento dell’agricoltura, il potente sviluppo dell’industria che assumerà la forma caratteristica dello zaibatsu[33].

Più interessanti per noi sono però le ripercussioni sul piano sociale e culturale. Il rinnovamento dell’intera vita nazionale, insieme con l’ammirazione feticistica per tutto ciò che è occidentale, induce la gente a cambiare abitudini ed usi stabiliti da secoli. Cambia così il modo di vivere, di vestirsi, di mangiare, di divertirsi. E soprattutto cambia la mentalità. Con la divulgazione del pensiero scientifico occidentale, la vecchia scienza di stampo cinese e l’etica confuciana perdono il loro prestigio ed il jitsugaku (“scienza pratica” o “realismo”) o vero sapere dell’occidente si rivela come il solo mezzo adatto per il conseguimento del progresso. Si traducono e si diffondono testi di Montesquieu, Mill, Spencer, Darwin, che suscitano temi ed interrogativi nuovi, mentre le opere di autori come Tolstoi, Nietzsche Kierkegaard ed Ibsen pongono l’accento sull’importanza dell’individuo in quanto tale e sul valore della sua libertà.

Il pericolo che tali dottrine soppiantino la disciplina morale tradizionale induce i governi dell’epoca Meiji a provvedere con un ampio programma di addottrinamento politico tendente a fare dell’imperatore il centro dell’unità nazionale. A questo scopo si avvale dell’appoggio della fede shintoista che giustifica l’autorità dell’imperatore attribuendogli origine divina. Nel 1880 viene istituito un corso obbligatorio di etica nelle scuole secondarie, allo scopo di inculcare nei giovani il precetto confucianodi rispetto dell’autorità e di fedeltà al paese[34].

Lo stato viene presentato come la fonte di ogni autorità, la meta più alta a cui deve tendere la vita morale del cittadino. L’adorazione dello stato diventa quasi una religione, una religione di patriottismo.

Tuttavia, questo sistema etico ufficiale non solo è insufficiente a soddisfare le nuove esigenze spirituali dei giovani dell’era Meiji, ma anzi, proprio per il suo carattere rigido e per l’insistenza con la quale si cerca di inculcarlo, non fa altro che suscitare lo scontento e l’opposizione da parte degli spiriti più sensibili.

È viva la ricerca di qualcosa di più profondo, che dia uno scopo alla vita, che valorizzi l’individuo in quanto tale e non soltanto in funzione dello stato. Ma né l’etica ufficiale, né alcuna delle religioni organizzate forniscono una risposta soddisfacente e così vediamo molti giovani intellettuali del periodo Meiji dibattersi in disperate crisi spirituali, senza più valori in cui credere, senza ideali per cui vivere. La parola hanmon (disagio ed agonia spirituale) ben descrive questo stato di inquietudine e ricerca[35].

Un caso estremo di hanmon è quello di un giovane di diciassette anni che si uccide gettandosi dall’alto della cascata Kegon, lasciando scritte sul tronco di un albero vicino le sue ultime parole, in cui mette in ridicolo la vita umana come uno sforzo senza significato cui non vale la pena di sottoporsi, un enigma che né religione né filosofia potrebbero mai risolvere. Ai suoi occhi, gli uomini che vivono senza convinzione nel significato reale della vita sono semplicemente da compatire, e per lui la morte è la sola soluzione per non essere un ipocrita o un codardo[36].

Questo clima spirituale di estrema inquietudine non può, naturalmente, non riflettersi anche su tutti gli aspetti della vita culturale di questo periodo ed in particolare sulla letteratura.

Infatti se osserviamo il mondo letterario nipponico dell’Era Meiji, notiamo che esso è tutto un pullulare di correnti letterarie che sorgono e si susseguono come una serie di reazioni a catena[37].

Alla corrente ideologica dell’Illuminismo, con le sue teorie razionaliste e progressiste derivate dalla cultura occidentale, segue nel 1887 quella del Realismo, secondo cui il romanzo dev’essere autentica interpretazione della vita, come sostiene Tsubouchi Shooyoo (1859-1935) nel suo opuscolo Shoosetsu Shinzui (Lo spirito del romanzo). Sorgono numerosi circoli letterari come il ken’yuusha (gli amici del calamaio) ed il Bungakukai (Società Letteraria) raccolti intorno alle rispettive riviste, mentre nel 1890 Kooda Rohan (1867-1947) fonda il movimento romantico (Rooman shugi) che si propone di rappresentare, attraverso la letteratura, gli aspetti più nobili dei sentimenti umani.

Con il moltiplicarsi delle traduzioni delle opere letterarie straniere, le idee di Nietzsche, Zola, Maupassant, Dostoievskij ed altri si diffondono nel paese suscitando tutto un fermento di idee e di tendenze. Al termine del conflitto russo-giapponese (1904-1905), sotto lo stimolo di altri fattori, quali il pessimismo delle classi intellettuali, la diffusione della cultura scientifica e la rivolta dell’individualismo, quelle idee fermentano fino a sfociare in una rivoluzione spirituale che dà vita al naturalismo (Shizen shugi), di cui il maggior esponente è Shimazaki Tooson. Le idee propugnate da questa corrente letteraria sono in gran parte una reazione allo spirito nazionalistico, spinto fino all’esaltazione, che accompagna la guerra con l’impero russo.

I seguaci del naturalismo rivolgono lo sguardo dentro di sé e da questo atteggiamento nasce la forma letteraria dello shi-shoosetsu (romanzo privato) che trova la sua completa espressione nelle opere di Tayama Takai. Secondo i naturalisti lo scrittore deve rivelare tutto di sé, anche gli aspetti più ignobili, e questo bisogno di sincerità, spinto fino all’ossessione, dà vita a romanzi in cui la vita umana è descritta in termini crudi se non addirittura brutali.

È a questo punto che emerge la figura di Sooseki. Egli accetta alcuni principi sui quali i Naturalisti basano il loro movimento, come, ad esempio, il distacco dagli ideali romantici del passato, il modo di esprimersi in un linguaggio semplice e diretto e la libertà del contenuto dai vecchi modelli letterari. Tuttavia egli è contrario alle descrizioni crude dei Naturalisti, che egli giudica non artistiche. Il più grave difetto del Naturalismo è, secondo lui, proprio la mancanza di naturalezza. Per Sooseki, questo movimento letterario è stato importato dall’Occidente ed imposto ad un Giappone non ancora preparato ad accoglierlo e quindi manca, in ultima analisi, di sincerità.

L’ideale letterario che sta alla base di tutta la produzione di Sooseki, è l’assoluta inseparabilità dell’arte dalla vita. Non basta descrivere la vita in termini reali: la cosa più importante è che queste descrizioni siano autentiche e condotte con abilità artistica. Perciò i critici hanno visto in lui un “neo-idealista” e considerano il movimento letterario che da lui trae origine, ossia l’Idealismo (Risoo shugi), una sorta di reazione contro il movimento naturalista. Non dobbiamo confondere però l’Idealismo di Sooseki con quello di Tanizaki Jun’ichiroo o di Musakooji Saneatsu, che appartengono rispettivamente alle correnti “estetica” e “umanitaria” dell’Idealismo.[38]

La prima, ossia la corrente estetica, si propone di ricercare nella vita soltanto l’ebbrezza artistica, al di là di ogni considerazione morale. La seconda, ossia la corrente umanitaria, è quella che si raccoglie intorno alla rivista Shirakaba (Betulla bianca) e vagheggia una vita libera ma disciplinata da un codice di sani principi morali.

Sooseki è estraneo ad entrambe queste correnti. Infatti, la problematica da lui affrontata verte principalmente sul tema dell’infelicità e della solitudine umana come conseguenza dell’egoismo e delle mancanza di sincerità. Lo stesso Sooseki si definì uno scrittore etico o un moralista, convinto che non ci fosse vera arte senza un fondamento etico o morale. La sua figura si staglia quindi sdegnosa e solitaria sullo sfondo inquieto della fine dell’epoca Meiji, caratterizzata dai profondi rivolgimenti sociali, politici e culturali che abbiamo fin qui qui brevemente illustato.

4 EVOLUZIONE SPIRITUALE DI NATSUME SOOSEKI ATTRAVERSO LE SUE OPERE
Edwin Mcclellan fa notare come Sooseki non trovasse nella tradizione letteraria del suo paese nessun predecessore o contemporaneo degno di emulazione, e che perciò, ogni volta che scriveva un nuovo tipo di romanzo, dovevesse quasi creare un nuovo linguaggio adatto al genere[39].

Questo si può notare fin dal primo romanzo di Sooseki, Wagahaiwa neko de aru (io sono un gatto) che compare sulla rivista letteraria hHtotogisu nel gennaio del 1905.

È un romanzo deliziosamente umoristico, nel quale un gatto filosofo parla, esaminando e criticando gli usi della società del suo tempo. Il personaggio su cui si concentra maggiormente l’attenzione del gatto è, naturalmente, il suo padrone, il sig. Kushami, le cui abitudini personali sono minuziosamente descritte.

Di lui sappiamo, ad esempio, che fa l’insegnante e quando torna da scuola si chiude nel suo studio per far credere a tutti, moglie e figli compresi, di essere uno studioso incallito, mentre poi in realtà non fa altro che sonnecchiare sui libri. Conosciamo il suo robusto appetito, nonostante i disturbi di stomaco che dovrebbero indurlo ad una maggior frugalità nei pasti. Ma l’abilità di Sooseki sta soprattutto nel ritratto psicologico che ci fa di Kushamisan, il quale crede di essere una persona importante agli occhi di tutti mentre in realtà non è che lo zimbello del vicinato ed il bersaglio di stupidi scherzi da parte di un certo signor Kaneda, un neo-arricchito pieno di boria e di pretese che, al contrario di Kushami, è molto stimato per la ricchezza e la posizione sociale. È chiaro qui l’intento di Sooseki di far della satira su un certo tipo di società, che è poi quella del suo tempo, in cui i soli valori che contano sono il denaro ed il potere.

Con Botchan (il signorino), scritto nel 1906, Sooseki approfondisce l’analisi dei mali della società dell’epoca. Il protagonista questa volta è un giovane neolaureato che parte da Tokyo per recarsi a fare l’insegnante in una lontana scuola di provincia. Orfano di buona famiglia, educato secondo le virtù del samurai e cioé: il disprezzo del denaro, dell’astuzia, della viltà e l’assoluta fedeltà verso gli amici, scoprirà a sue spese che tutte queste buone qualità non servono a nulla nel mondo in cui vive, dove trionfano invece la doppiezza (rappresentata dal preside della scuola), il servilismo (l’insegnante di disegno) e l’ipocrisia (il direttore). Sbeffeggiato dagli studenti, criticato dai colleghi insegnanti, questo povero maestro, nella sua innocenza e semplicità, riesce tuttavia a prendersi una rivincita finale che, anche se di nessuna utilità pratica, può quantomeno soddisfare il suo orgoglio ferito e la sua profonda sete di giustizia.

Questi due romanzi che ebbero un enorme successo sia di pubblico che di critica, ci rivelano l’atteggiamento spirituale del giovane Sooseki che, in veste di censore, alla luce degli ideali tradizionali confuciani, ci addita i difetti più appariscenti della società in cui vive.

A questo punto assistiamo ad un brusco cambiamento di rotta. Nel 1906 compare il terzo romanzo, Kusamakura (cuscino d’erbe), completamente diverso dai primi due, sia per il contenuto che per la forma.

Kusamakura rappresenta un esperimento isolato nella carriera artistica di Sooseki. Egli non scriverà mai più un romanzo di questo tipo, che secondo alcuni critici è la più bella tra le opere di Sooseki.

Egli stesso lo definì “un romanzo alla maniera di un haiku” e disse che il suo scopo nello scriverlo era stato quello di “lasciare un’impressione di bellezza nella mente del lettore”.

Protagonista e narratore è un giovane pittore che sente il bisogno di allontanarsi temporaneamente dal mondo di sofferenze e di passioni in cui vive e si ritira perciò in un piccolo villaggio di montagna con l’intenzione di vivere una vita più autentica, nel regno purissimo dell’arte, in stretto contatto con la natura. Colà egli si propone di osservare i fatti della vita come se fossero “parte dell’azione di una rappresentazione noo”, di osservare la gente come se “si muovesse all’interno di un quadro”, tenendosi a distanza senza lasciarsi coinvolgere da alcuna emozione.

Ed ecco quindi il villaggio di Nakoi ed i suoi abitanti che il pittore poeta ci presenta in termini puramente visuali: i pini attraverso la pioggia primaverile, il valligiano con la bestia da tiro, il sentiero di montagna che ci par di vedere, anche se ogni cosa ci appare come sfumata, e sembra far parte di un mondo irreale.

Anche l’eroina del romanzo, O-nami, la figlia del locandiere Shioda, ci è presentata attraverso una serie di immagini. Dapprima sono immagini puramente fantastiche. Il pittore sente parlare di lei nel villaggio, dove tutti credono che la fanciulla sia pazza e, affascinato dal mistero che circonda questa strana creatura, pensa a lei prestandole il volto dell’Ofelia dipinta da Millais, o identificandola con una figura leggendaria di donna che compare nel Manyoshuu. Quando, più tardi, la incontra personalmente, la metamorfosi di immagini continua: ora è un’ombra che scivola furtiva nel giardino al chiaro di luna, ora una danzatrice, ora una donna arguta e piena di fascino.

Il poeta-pittore cerca di arrestare ciascuna di queste immagini in una serie di haiku. Vorrebbe anche ritrarre il suo volto, ma sente sempre in esso la mancanza di un elemento fondamentale, senza il quale il ritratto non sarebbe completo.

Una profonda affinità spirituale unisce il protagonista ad O-nami: anch’essa infatti è alla ricerca di una vita senza passioni e le sue eccentricità non sono altro che il suo modo di essere se stessa, senza alcun riguardo per le convenzioni sociali. O-nami incarna, agli occhi di Sooseki, l’ideale della bellezza che è al di sopra di ogni volgarità e di ogni passione umana. Ma questo tipo di bellezza è anche inafferrabile. Infatti il pittore riesce a dipingere il volto della donna solo quando compare in essa un’espressione “umana”: la compassione per l’ex-marito che, ridotto in miseria, nella scena finale abbandona il paese diretto verso una meta sconosciuta. Allora il pittore comprende che non ci può essere arte al di fuori del contatto con la vita, al di fuori dei rapporti e dei sentimenti umani.

Come la bellezza richiede compassione, così l’arte richiede umanità.

Poco tempo dopo la pubblicazione di questo romanzo, sooseki scrisse ad un amico che egli non avrebbe mai provato soddisfazione nello scrivere soltanto romanzi simili ad haiku e che anzi sarebbe stato “disumano” continuare a farlo[40].

D’ora innanzi, disse, egli voleva scrivere “come se lo scrivere fosse una questione di vita o di morte”.

Nel 1907 compare il romanzo Nowaki (vento d’autunno) in cui, per la prima volta, Sooseki affronta seriamente il tema della sofferenza umana. Lo stile è ancora un pò rigido, l’introspezione psicologica piuttosto superficiale, tuttavia quest’opera ci dà una misura dell’impegno con cui Sooseki inizia il difficile compito di scandagliare l’animo umano, per mettere a nudo le cause dell’umana infelicità. Si può dire che, d’ora innanzi, tutta la sua produzione letteraria sarà volta ad approfondire questa ricerca. Il romanzo si svolge essenzialmente intorno a tre personaggi: Shirai, Takayanagi e Nakano. I primi due sono poveri, mentre il terzo è ricco.

Shirai è un intellettuale disgustato da quella che egli definisce “visione grossolanamente materialistica” dei suoi contemporanei. Egli è convinto che la ricchezza ed il potere abbiano distrutto le aspirazioni spirituali della società giapponese e prova un ardente desiderio di riforma.

Ma, proprio a causa della sua sincerità e del suo zelo un pò fanatico, finisce per ritrovarsi solo, incompreso e povero. Sopporta tuttavia dignitosamente questa povertà, a differenza del suo amico Takayanagi, il quale si vergogna di non aver denaro e disprezza i ricchi solo perché li invidia.

Dice di voler scrivere un grande romanzo, ma di non poterlo fare perché costretto a lavorare duramente per guadagnarsi da vivere, e così finisce per ripiegarsi su se stesso, in un cupo atteggiamento di auto-commiserazione.

Nakano, l’amico ricco, è gentile e cerca di aiutarlo, ma la sua generosità nasce dalla compassione e non dalla vera comprensione di ciò che significa essere poveri. Scoprendo che Takayanagi è gravemente ammalato, gli dà un pò di denaro perché possa curarsi. Takayanagi accetta il dono con riluttanza e, ferito nell’orgoglio, promette all’amico di sdebitarsi presto con lui, regalandogli il manoscritto che sta scrivendo. Quando però scopre che Shirai è in difficoltà perché non può pagare un debito, gli dà senza alcuna esitazione il denaro ricevuto, riscattandosi con questo nobile gesto da tutte le meschinità della sua vita. E, nella scena finale, mentre si reca da Nakano con un manoscritto di Shirai che nessun editore ha voluto, dà l’addio anche alle sue ambizioni accettando per la prima volta i suoi limiti, conscio della sua terribile, insopportabile solitudine.

Sanshiroo, che appare nel 1908, è considerato la prima parte di una trilogia che comprende anche Sorekara (e dopo?) e Mon (la porta). Questi tre romanzi hanno per protagonisti giovani uomini che, attraverso esperienze più o meno dolorose, acquistano, assieme ad una maggior maturità, la consapevolezza che il dolore è la condizione permanente della vita umana.

Sanshiroo, ad esempio, è un ragazzo di provincia, timido e goffo, che si reca a Tokyo per studiare all’università. L’amicizia con Hirota, un uomo più maturo, già deluso dalla vita; il sentimento di solitudine che lo assale nel trovarsi improvvisamente in una grande e sconosciuta città; l’esperienza del primo ed infelice amore per Mineko, sono tutti elementi che distruggono l’ottimismo iniziale di Sanshiroo e gettano un’ombra di tristezza sui suoi anni futuri.

Il protagonista di Sorekara, Daisuke, è ancora più maturo e complesso. In lui Sooseki ha voluto rappresentare la crisi esistenziale dei giovani intellettuali dell’Era Meiji, o meglio, dell’epoca immediatamente successiva alla guerra russo-giapponese.

Il Giappone ormai è diventato una nazione moderna e si è allineata al fianco delle grandi potenze mondiali. L’espansione industriale del dopoguerra, insieme con il mutato tenore di vita, ha contribuito alla diffusione di una nuova mentalità, egoistica ed utilitaristica, mentre i canoni etici che regolano da secoli la società giapponese, secondo cui l’individuo deve vivere in funzione della famiglia, della società e dello stato, sono rimasti immutati.

Una situazione del genere può essere accettata solo da chi è stupido o ipocrita. Ma il giovane Daisuke è troppo intelligente ed onesto con se stesso, donde il suo distacco, sempre più grande, dal padre, un ricco finanziere di discendenza samurai, nato prima della restaurazione che incarna la morale tradizionale.

Daisuke ha trent’anni, è un individualista, vive comodamente con il denaro che ogni mese il padre gli manda e passa il tempo andando a teatro, chiacchierando e divertendosi. È convinto che questo sia l’unico modo di vita per un uomo “civilizzato”. Dice ad un amico:

“mi chiedi perché io non lavoro. Non è colpa mia. La colpa è del mondo che ci circonda… Guarda il Giappone. È il tipo di nazione che non può sopravvivere a meno di prendere in prestito denaro dall’occidente. Nonostante ciò essa è una potenza di prima classe, cerca di farsi strada tra le potenze di prima classe… È come una rana che cerchi di diventare grossa come un bue. Ovviamente presto scoppierà. Questa lotta si riflette su di te, su di me e su chiunque altro. A causa della pressione della competizione con l’occidente i giapponesi non hanno tempo per rilassarsi, pensare e fare qualcosa di meritevole. Essi sono allevati in un’atmosfera di tensione e di frugalità e quindi sono costretti ad impegnarsi in un’attività frenetica. Non c’è da meravigliarsi se sono tutti nevrotici. Parla con loro, e scoprirai che sono tutti stupidi. Non pensano ad altro che a se stessi e alle loro necessità immediate. Cerca in tutto il Giappone e non troverai un solo pollice di terra che riluca di speranza. C’è oscurità dovunque. In mezzo a questa oscurità, cosa potrei, io, solo, dire o fare qualcosa di utile?”

Il suo comportamento è in gran parte un atto di ribellione contro l’educazione ricevuta. Anche il suo rinnovato amore per michiyo, la donna che daisuke amava ma, per uno sciocco senso del dovere, aveva lasciato sposare ad un amico, anni prima, è ora un mezzo per rivendicare la sua libertà contro tutti, anche se il prezzo di questa libertà sarà pagato con un’amara solitudine.

In Mon il dolore è invece generato da un senso di colpa. Soosuke, il protagonista, conduce una vita apparentemente tranquilla, eppure sa di non poter mai essere felice perché tormentato dal rimorso di aver tradito un amico, Yasui, cui ha sottratto la compagna Oyone, divenuta in seguito sua moglie.

Benché Soosuke ed Oyone siano una coppia molto affiatata e vivano l’uno per l’altra, il ricordo del male commesso ed il pensiero di aver rovinato la vita di Yasui pesa su di loro come una maledizione. Perfino l’incapacità di oyone a procreare ed altre disgrazie sopravvenute sono da loro interpretate come una punizione divina. Non solo la loro vita è priva di speranza, ma è adombrata costantemente dal sospetto che possa succedere loro qualcosa di peggio.

Non potendo più sopportare questo tormento, Soosuke decide di cercare conforto nella religione ed entra in un tempio zen a Kamakura. Rimane colà alcuni giorni, cercando con tutto se stesso di trovare pace di mente attraverso la meditazione, ma ogni sforzo è vano. Egli comprende infine che né gl’impenetrabili segreti dello zen, né la rigida disciplina monastica sono in grado di fornire una risposta ai suoi problemi.

Mon è, probabilmente, il romanzo più pessimista che sooseki abbia mai scritto. Non c’è assolutamente nulla che possa lenire l’angoscia di soosuke, né un filo di speranza che illumini la sua vita futura. Egli sa che il destino non gli riserverà che dolore.

Nella scena finale, la moglie Oyone, gentile ed affettuosa figura di donna, è alla finestra e contempla estasiata la radiosa giornata di sole.

“che bellezza! È arrivata finalmente la primavera.”[41]

Ma nella risposta di Soosuke non c’è che amarezza:

“Sì, ma presto sarà nuovamente inverno”.

Nel 1911, dopo la grave malattia che lo ridusse in stato di coma, Sooseki riprende la sua attività di scrittore con Higan sugi made (Fino all’equinozio di primavera). Quest’opera insieme con Koojin (il viandante) del 1913 e Kokoro (cuore), forma la cosiddetta “seconda trilogia”.

Il tratto comune che unisce queste tre opere è rappresentato dalla loro mancanza di unità. Ciascuna di esse infatti, più che un romanzo a sé stante può essere considerata come l’unione di racconti brevi, legati assieme da un filo condutore, spesso evanescente. Alcuni critici hanno spiegato questo fatto attribuendolo alle particolari condizioni psicofisiche di Sooseki che lo resero temporaneamente incapace di concepire e strutturare un romanzo unitario[42].

Higan sugi made è, infatti, una serie di racconti uniti da un filo conduttore rappresentato dalla figura dello studente che ascolta queste narrazioni prima da un amico, poi da diversi parenti di quest’ultimo. Contiene dei brani molto belli, in cui l’analisi psicologica dei personaggi è condotta con una delicatezza ed un’abilità senza precedenti; eppure appartiene indiscutibilmente ad una fase di transizione, in cui sooseki si prepara a portare alle estreme conseguenze quella ricerca delle cause dell’infelicità umana iniziata con i romanzi precedenti e, facendo un ulteriore passo avanti, sembra suggerire alcune soluzioni al dilemma che lo tormenta.

Ichiroo, il personaggio attorno a cui si svolge l’azione di koojin, è forse il modello che meglio si identifica con l’agonia dei suoi tempi, incarnando nella sua personale crisi umana i giganteschi problemi derivati dalla modernizzazione ed occidentalizzazione del Giappone dell’Era Meiji già Sanshiroo aveva sofferto per la crisi di valori conseguente all’impatto del vecchio tipo di società con quello nuovo ed aveva espresso la sua ribellione con l’affermazione della propria personalità ed il disprezzo delle convenzioni sociali. Ma Ichiroo soffre ancora di più, perché non solo non riesce ad dentificarsi con la fede dei suoi padri, ma neppure con le credenze dell’età moderna.

Gli antichi pricipi morali che regolavano da sempre la società giapponese ed ispiravano sicurezza alle coscienze, sono miseramente crollati sotto la pressione della cultura occidentale e tuttavia non sono ancora stati sostituiti da valori nuovi. Nell’animo dei giovani più intelligenti e sensibili c’è un terribile senso di vuoto che genera inquietudine e paura.

Ichiroo non crede più in null’altro che in se stesso, osserva tutto e tutti con sospetto e così finisce per isolarsi sempre più tanto dai famigliari quanto dai colleghi di lavoro, al punto da non riuscire più a comunicare con essi. La sua mente, tesa fino allo spasimo nel disperato tentativo di trovare una risposta ai problemi esistenziali, si rivela una strumento inadeguato, anzi, proprio a causa dell’eccessivo raziocinio, ichiroo rischia di diventare pazzo. Così un amico, il signor H, ci descrive il suo stato di ansietà:

“Egli soffre perché nulla di ciò che fa gli sembra un fine o un mezzo. È continuamente a disagio e non può rilassarsi. Non riesce a dormire e perciò si alza dal letto. Ma, quando è sveglio, non può rimanere fermo, e comincia a camminare. Quando cammina sente che deve cominciare a correre. Quando ha cominciato a correre non può più fermarsi. Dover continuare a correre a già brutto di per sé, ma egli si sente addirittura costretto ad aumentare la sua velocità ad ogni passo. Quando egli immagina cosa sarà la fine di tuto ciò, è così spaventato che gli sgorga dalla pelle un freddo sudore. E la paura diventa insopportabile.”[43]

Quando l’amico h cerca di confortarlo dicendogli che la sua altro non è che l’inquietudine generale tipica della condizione umana, ichiroo è d’accordo con lui, attribuendone l’origine all’epoca di instabilità in cui essi stanno vivendo.

“La nostra infelicità deriva dal progresso scientifico. La scienza non sa dove arrestarsi e non ha mai permesso neppure a noi di fermarci… Nessuno sa dove essa ci condurrà. È davvero spaventoso.”[44]

H è una persona tranquilla, senza problemi e vorrebbe sinceramente aiutare l’amico ad uscire dal suo stato di confusione spirituale. Cerca quindi, in perfetta buona fede, di indirizzarlo sulla strada della religione; ma ichiroo, vero figlio dell’epoca meiji, non può accettare una soluzione che trascende i poteri dell’intelletto e rigetta violentemente il consiglio dell’amico. Nel momento in cui il romanzo si conclude, noi non sappiamo ancora se ichiroo risolverà il suo dilemma. Sooseki, tuttavia, ci apre uno spiraglio attraverso cui filtra un raggio di speranza: è l’indicazione di una via, percorrendo la quale, forse, ichiroo riuscirà a salvarsi.

Kokoro, ultimo romanzo della seconda trilogia, è il più popolare dei romanzi seri di Sooseki. Ecco come l’autore stesso presentò quest’opera:

“A coloro che desiderano comprendere il proprio cuore, io raccomando questo libro che è riuscito a dimostrare l’essenza del cuore umano”.

È un romanzo pieno di pathos, scritto con l’intensità di un poema lirico. Narra la storia di un uomo, Sensei (lett. maestro) che, avendo subito un grave torto negli anni della gioventù, ha perso completamente la fiducia nei suoi simili. Più tardi, per una serie di circostanze, tradisce a sua volta un am ico che,disperato, si toglie la vita. Avendo perso anche la fiducia in se stesso, tormentato da un acuto senso di colpa, Sensei si disprezza e si chiude sempre di più in sé, finché la solitudine diventa insopportabile ed egli non trova altra soluzione che il suicidio. Ancora una volta Sooseki affronta il tema della solitudine come prezzo che l’uomo deve pagare per aver commesso il male. Ma la vicenda personale di Sensei è come trasferita su un piano più alto: la sua colpevolezza è la colpevolezza dell’intera umanità, e la sua solitudine la condizione permanente dell’animo umano, egoista e mirante solo ai propri interessi.

Michikusa è l’unico romanzo autobiografico di Sooseki, e descrive il periodo compreso tra il ritorno da Londra (1903) e l’inizio della sua attività di romanziere (1905). In esso Sooseki confessa amaramente il fallimento della sua vita privata: l’infanzia infelice; i burrascosi rapporti con la moglie causati da un eccessivo orgoglio da parte di entrambi, che li rende incapaci di stabilire un dialogo; le pressioni economiche da parte dei parenti e dei genitori adottivi; le difficoltà finanziarie che rendono meschina la sua vita; sono tutti elementi che ci danno una misura di quanto l’egoismo e la solitudine, che così spesso affliggono i personaggi dei suoi romanzi, siano stati autenticamente sofferti dall’uomo Sooseki.

Meian è l’ultimo romanzo, rimasto purtroppo incompleto per la morte dell’autore. Ancora una volta la vicenda si svolge intorno al difficile rapporto tra due coniugi Tsuda ed O-Nobu che, pur amandosi, non riescono a manifestare i propri sentimenti l’uno all’altro. Tra di loro c’e come un muro fatto di sospetti, di egoismo, di orgoglio. Nessuno dei due ha il coraggio di rivelarsi all’altro per ciò che veramente è, di mostrare le proprie debolezze e la conseguenza di tutto ciò è un rapporto falso e frustrante in cui due esseri umani, pur essendo vicini, non riescono a comunicare e si sentono terribilmente infelici. Per Sooseki, l’uomo è davvero solo e non c’è vincolo, per quanto stretto, di amicizia, o di parentela, che possa espugnare quella fortezza che ciascuno di noi costruisce attorno al proprio, autentico sé. è dunque sempre impossibile la comunicazione tra due anime? Sembrerebbe di sì, se non comparisse all’orizzonte la luminosa figura di Kiyoko, l’angelo di purezza, l’incarnazione dell’assoluta bellezza che affascina l’uomo e scioglie poco a poco con la sua luce ed il suo calore il gelo mortale che si è accumulato dentro di lui. Non sappiamo se Tsuda sarà salvato da lei, perché il romanzo rimane interrotto proprio a questo punto: ma è bello pensare che, negli ultimi giorni della sua vita, Sooseki abbia potuto scorgere una luce di conforto in fondo a quell’abisso di solitudine e dolore da cui emergono quasi tutti i personaggi dei suoi romanzi.

5 LA RELIGIOSITÀ NELLE OPERE DI NATSUME SOOSEKI
Vorremmo che questa rapida panoramica sul contenuto delle principali opere di Natsume Sooseki servisse a mettere in risalto come la problematica affrontata da questo scrittore sia di tipo eminentemente “religioso”.

Infatti, il problema spirituale di Sooseki, che egli affronta in quasi tutti i suoi romanzi, si può formulare in questi termini: Come può l’uomo sfuggire alla solitudine e dare un significato alla sua vita? è possibile trovare la pace in questo mondo di passioni e di dolore?

Tutta la vita di Sooseki, sia come uomo che come artista, non è che la continua ricerca di una soluzione a questi profondi interrogativi. Sarebbe vano però cercare in lui la formulazione di una precisa risposta[45], la formula magica atta a risolvere l’eterno problema dell’umana infelicità.

Sooseki non è un filosofo, ma un artista. Non troveremo mai in lui idee esposte in modo sistematico, con chiarezza e rigore logico, ma sempre e soltanto indicazioni, allusioni dai contorni sfumati che dobbiamo filtrare dai suoi romanzi e che tuttavia ci consentono di individuare alcune direzioni fondamentali verso cui si articola la sua ricerca. È interessante, perciò, seguire le varie fasi dell’evoluzione spirituale di Natsume Sooseki.

5.1 KUSAMAKURA – Il romanzo alla maniera di un haiku
Come abbiamo già visto, sia Wagahaiwa neko de aru che Botchan appartengono al periodo in cui Sooseki osserva con occhio critico la società dei suoi tempi e ne denuncia i principali difetti. Poi, improvvisamente, la sua attenzione si sposta sull’uomo e le sue riflessioni si fanno più profonde: ed ecco la prima opera “impegnativa”, Kusamakura, un romanzo “simile ad un haiku”.

Kusamakura rappresenta una tappa fondamentale in cui Sooseki ha smesso di indagare sui mali della società eppure non affronta ancora il tema scottante del dolore umano. La si potrebbe definire una pausa di riflessione. Il protagonista di Kusamakura si differenzia da tutti gli altri personaggi creati da Sooseki, per una sua caratteristica, diremmo così, disumana; nel senso cioé che egli non è un uomo che soffre per una particolare situazione concreta, né ha problemi psicologici o di altra natura che lo affliggono. La sua, se vogliamo, non è che la preoccupazione di un esteta che si trova a disagio in questo mondo pieno di emozioni, di ignobili passioni, e cerca quindi di sollevarsi in un reame a lui più consono, che è quello nobile e puro della Bellezza, a cui egli si avvicina attrverso un certo tipo di contemplazione della Natura.

Ecco come Sooseki ci spiega tutto ciò per bocca del protagonista del romanzo:

“Avvicina ogni cosa razionalmente e diventerai arido. Immergiti nel fiume delle emozioni, e sarai spazzato via dalla corrente. Sciogli le redini ai tuoi desideri e ne diventerai l’infelice schiavo. Non è davvero un bel posto in cui vivere questo nostro mondo.”[46]

Proprio per sfuggire alla schiavitù delle passioni, il poeta pittore si ritira dal mondo per immergersi nella contemplazione della Natura.

“Lassù, tra i monti, vicino alle bellezze della Natura, ogni cosa che tu vedi o ascolti è motivo di gioia. è una gioia priva di qualsiasi preoccupazione reale. Possono dolerti le gambe, o puoi sentire la mancanza di qualche cosa veramente buona da mangiare, ma questo è tutto.

Perché è così? Penso che il motivo sia questo: che guardando il paesaggio, è come se tu stessi guardando un quadro spiegato davanti a te o leggendo una poesia su di una pergamena. Tutto quello spazio è tuo, ma dal momento che esso è soltanto come un dipinto o una poesia, non ti viene in mente di moltiplicarlo o di fare affari costruendoci una ferrovia che lo colleghi alla città. Sei libero da ogni ansia e preoccupazione perché accetti il fatto che quel paesaggio non ti aiuterà a riempire il tuo ventre, né aggiungerà un soldo al tuo stipendio, e sei contento di gustarlo solo in quanto paesaggio. Questo è il grande fascino della natura, e cioé che essa può in un attimo, disciplinare i cuori e le menti degli uomini e, rimuovendo tutto ciò che vi è di ignobile, condurli nel puro ed immacolato mondo della poesia”[47].

Ecco perché sooseki paragona kusamakura ad un haiku: perché entrambi sono l’espressione di uno spirito contemplativo che, senza considerazioni di profitto o di perdita, si limita semplicemente a guardare le cose in tutta tranquillità.

È lo stesso atteggiamento spirituale da cui sono scaturiti gli haiku del famoso poeta matsuo bashoo (1644-1694).

Anche bashoo, come il protagonista di kusamakura, amava andare alla ricerca di bellezze naturali che parlassero al suo cuore.

Davanti agli spettacoli sempre mutevoli della natura, le sue impressioni sono come quelle di un bambino che scopre il mondo per la prima volta:

“La prima neve:
Le foglie dei narcisi
Sono incurvate.”[48]

Oppure:

“Un mare in tempesta,
E la via lattea che si estende
Al di sopra dell’isola di Sado”[49]

Come un bambino ancora incapace di comunicare i propri sentimenti, così il poeta non ci rivela i suoi. Ma noi avvertiamo, dietro queste delicate immagini poetiche, l’emozione dell’artista nell’istante in cui riesce a penetrare la dimensione puramente fisica dell’oggetto osservato per coglierne la misteriosa, intima essenza. Ecco allora che le cose visibili acquistano il valore di simboli di una realtà più grande che tutto comprende e pervade di sé.

In effetti, il mondo poetico degli haiku da Bashoo in avanti mostra molti punti in comune con i poeti simbolisti[50].

Entrambi esplorano il valore poetico dei simboli e sono ricchi di suggestioni; entrambi sperimentano l’estasi, una felicità senza limiti.

Secondo C.M. Bowra, il poeta simbolista trova l’estasi in

“Un puro stato estetico che sembra dimenticare ogni distinzione di tempo e di luogo, di ego e di non-ego, di dolore e di gioia”[51]

Bashoo definì questo particolare stato di grazia come sabi. La parola letteralmente significa calma, mistica serenità. È

“Quell’abbandono nell’infinito in cui l’anima solitaria si sente come dolcemente trasportata nella calma soffusa che sovrasta il rumore del mondo transeunte, è quella serenità mistica che fa provare il brivido, il senso dell’eternità”[52]

In questo stato d’ animo la mente si rilassa, diventa limpida e pura, mentre in essa pensieri e sensazioni vanno e vengono senza lasciare traccia, come uccelli nel cielo. Il protagonista di kusamakura cita alcuni versi del poeta cinese Tao Yuan-Ming:

“Colgo un crisantemo sotto la siepe orientale
Guardando lentamente verso le colline del sud”[53].

La poesia così continua:

Gli uccelli volano a coppie verso il loro nido
Attraverso la dolce aria montana del crepuscolo
In queste cose c’è un profondo significato,
Ma quando noi cerchiamo di esprimerlo
Improvvisamente dimentichiamo le parole

È uno stato di mente assolutamente puro, in cui la poesia sgorga con naturalezza. Sooseki cita un altro poeta cinese, Wang Wei:

“Seduto solo, circondato dai bambù
Pizzico le corde;
E, dalla mia arpa,
Lente note scivolano via senza sforzo.
Negli angoli oscuri e remoti
Penetra la bianca luce lunare
Filtrando attraverso le foglie.”

La mente si limita a contemplare le cose come uno specchio che tutto riflette ma nulla trattiene, in uno stato di assoluto distacco. Questo atteggiamento di distacco dalle cose affonda chiaramente le radici nel pensiero buddhista, secondo cui gli oggetti che noi crediamo reali non sono altro che maya, ossia “misure” della nostra mente, frutto delle categorie fisse del nostro pensiero che attribuisce ad esse forma (rupa) e nome (nama), mentre in realtà non sono che entità vuote.

È famoso il dialogo tra il re milinda ed il monaco nagasena. Costui chiede al re di spiegargli che cosa significhi la parola “cocchio”. Gli domanda:

“E forse il timone il cocchio?”
“Io non affermai ciò”
“È l’asse che è il cocchio?”
“Certamente, no”
“Sono le ruote o il telaio, o le corde, o il giogo, o i raggi delle ruote, o il pungolo che sono il cocchio?”
E a tutte queste domande rispose ancora negativamente.
“E allora sono tutte queste parti insieme che sono il cocchio?”
“No, signore”
“Ma v’è alcuna cosa al di fuori di esse che sia il cocchio?”
E ancora rispose di no
“Allora così, per quanto io domandi, non posso scoprire alcun cocchio. Cocchio è un suono vano. Cos’è allora il cocchio in cui dici di essere venuto? È una falsità che tu, o re, hai detto; una cosa non vera! Non vi è cosa siffatta quale un cocchio”[54]

Tutte le cose, quindi, secondo la religione buddhista, sono vuote, incosistenti. Anche il mio “io” che contempla il mondo esterno non è che un agglomerato transeunte di cinque khandha che si aggregano e si disgregano in un continuo divenire. In questo flusso incessante, lo sforzo che la nostra mente fa per bloccare e ghermire determinati oggetti è sciocco e non causa che dolore.

Anche il Taoismo parte da presupposti simili, affermando che i vari aspetti del reale non sono altro che temporanee combinazioni dei due principi dello Ying (oscurità, passività, principio femminile) e dello Yang (luce, attività, principio maschile) che si innovano all’interno del Tao. Ma il concetto di non attaccamento alle cose è diverso da quello buddhista, e nasce dalla piena fiducia nel Tao, dal quale hanno origine tutte le creature.

“Il Tao le fa vivere
La virtù le alleva, le fa crescere
Le sviluppa, le completa, le matura,
Le nutre, le protegge.”[55]

Attaccarsi ad esse non ha quindi alcun senso, dal momento che il loro flusso di vita è regolato dal Tao. A che serve pensare di appropriarsene, o cercare di modificarle secondo la nostra volontà? Il saggio taoista perciò applica nella sua vita i due principi fondamentali del Wuxing (non pensare) e del Wuwei (non agire) vivendo secondo la massima di Lao-tse:

“Essere semplici, restare naturali
Avere pochi interessi e pochi desideri”[56]
L’ostacolo più grosso al raggiungimento della spontaneità è però rappresentato dalla coscienza di sé.

Bisogna quindi, secondo lo Zen, realizzare uno stato di muga o incoscienza di sé in cui l’io individuale smette di considerarsi come un’entità indipendente, ma si fonde in un io cosmico che, come l’atman delle upanishad, pervade tutte le cose.

L’uomo che realizza questa esperienza assorbe l’universo in sé, il che significa l’identificazione con tutti gli elementi del cosmo. Questo tipo di unione mistica con il tutto nella terminologia zen è definito come satori. Eccone una descrizione:

“Il guscio individuale in cui la mia personalità è così solidamente racchiusa esplode nel momento del Satori. Non che mi trovi unito ad un essere più grande di me o disciolto in esso, ma la mia individualità, che io rigidamente conservavo e tenevo distintamente separata dalle altre esistenze individuali, si scioglie in qualche modo dalla sua stretta soffocante e si fonde con qualcosa di indescrivibile, qualcosa che è di ordine del tutto differente da ciò a cui io sono abituato.

Il sentimento che ne consegue è quello di una completa liberazione o di un completo riposo – la sensazione di essere finalmente arrivati a destinazione”[57]

Il protagonista di Kusamakura ci descrive un’esperienza quasi identica

“Avrei detto che la mia anima si stesse muovendo con la primavera. Immagina tutti i colori, le brezze, gli elementi e le voci della primavera condensati, ridotti in polvere e mescolati assieme per formare un elisir di vita, che sia stato dissolto in rugiada raccolta dalle pendici dell’Olimpo e fatta evaporare al sole del paese delle fate. Mi sentivo in quel momento come se il vapore che saliva da quel liquido così prezioso fosse filtrato attraverso i pori della mia pelle e, senza che me ne rendessi conto, avesse riempito la mia anima. Il motivo per cui il processo di venir assimilato ad un oggetto è piacevole, sta nel fatto che esso, di solito, è accompagnato da stimoli. Nel mio caso, comunque, non era così, perché era impossibile dire a che cosa mi fossi assimilato. Quest’assenza di stimoli significa che ero pervaso da una tranquillità indescrivibilmente profonda e bella. La mia non era una sensazione passeggera di esaltazione selvaggia, come un’onda sollevata momentaneamente dal vento solo per ricadere di nuovo in un istante. No, lo stato in cui mi sentivo può meglio essere paragonato a quello di un vasto oceano fluttuante attraverso profondità incommensurabili da continente a continente”.

L’esperienza del Satori è molto difficile da raggiungere. Alcuni vi pervengono dopo anni di dura disciplina e meditazione all’interno di un monastero Zen, sotto la guidaa di un Rooshi (maestro). Ma ci sono anche anime elette che, dopo aver conseguito un buon livello di preparazione spirituale, raggiungono il Satori in seguito ad un banale incidente. È famoso l’episodio del poeta Bashoo che, una sera, mentre era solo al buio assorto in profonde meditazioni, udì il rumore di una rana che saltava nell’acqua di uno stagno: quel “plof” fu come una scintilla che gli aprì gli occhi sul mistero dell’universo. Ecco come descrisse il fatto in un haiku che è forse il più famoso di tutti:

“O vecchio stagno!
Una rana vi salta e…
Un rumor d’acqua!”

Il piccolo rumore provocato dal salto della rana turba per un attimo la perfetta immobilità circostante, proprio come la vita che dura un istante e subito si spegne nel silenzio dell’eternità.

La poesia per Bashoo è frutto di un’iluminazione spirituale. Ecco una sua penetrante descrizione dell’intimo processo che trasforma l’uomo in un poeta:

“Quando vedi un oggetto devi abbandonare le preoccupazioni soggettive che ti riguardano, altrimenti tu sovrapponi te stesso all’oggetto e non ti accordi con esso. L’oggetto deve diventare una sola cosa con te stesso, e da quel sentimento di unità sgorga la tua poesia. Per quanto possa essere bene espresso, se il tuo sentimento non è naturale – cioé se l’oggetto è separato da te stesso – allora la tua poesia non è vera poesia, ma solo una tua falsificazione soggettiva”[58]

Quando il poeta si è spersonalizzato nella serenità della natura circostante, ecco che in ogni rumore può cogliere la voce dell’universo:

“Quanta calma!
Solo, penetrante le rocce,
Il grido delle cicale”

(Bashoo)

Egli si sente in sintonia con la natura, animato dallo stesso flusso vitale che anima le erbe, i fiori, i sassi. Nasce in lui un interesse, pieno di simpatia per tutti gli esseri viventi:

“L’acqua è gelata,
O povero gabbiano,
E tu non puoi dormire!”

(Bashoo)

Oppure

“Stanno per tagliarlo, l’albero,
E tu non lo sai, uccellino
Che vi fai il tuo nido”

(Issa)

È un sentimento di carità universale che non fa trascurare neppure l’oggetto più insignificante. Bashoo lo definì hosomi, che letteralmente significa “sottigliezza” e consiste nel cercare la semplice beltà delle piccole cose[59].

Osserviamo, ad esempio, la descrizione di alcuni yokan (dolci fatti con gelatina di fagioli dolci) che troviamo in Kusamakura:

“La loro struttura fine e levigata ed il modo in cui diventano semi-trasparenti quando la luce cade su di essi li rende indiscutibilmente un oggetto d’arte, mentre la loro verde lucentezza li rende simili a pietre preziose o li fa apparire come modellati con alabastro. Armonizzano talmente con la ciotola in colore e splendore che sembrano prodotti dalla porcellana stessa”[60].

Qui il protagonista di Kusamakura si limita a contemplare degli umili oggetti, soggiogato dal loro fascino. Altrove, ci descriverà il trapasso da un atteggiamento di contemplazione ad uno di completa identificazione con le cose più impensabili:

“Talvolta egli [l’artista o il poeta illuminato] può diventare un petalo solitario, talvolta un paio di farfalle. Egli può perfino, come Wordsworth, diventare l’ospite di un narciso: il suo cuore sfiorato e fatto dondolare da una gentile e frusciante brezza. A volte, comunque, egli si trova tutto preso dall’ambiente naturale che lo circonda senza essere conscio precisamente di che cosa abbia rapito il suo cuore. Uno potrebbe spiegare il modo in cui egli si sente dicendo ch’è stato ipnotizzato dallo splendore della Natura, un altro descriverlo come se potesse udire le note di un’eterna arpa proveniente da qualche profondo recesso della sua anima”.

Vediamo quindi come, nel romanzo Kusamakura, Sooseki non si curi di tratteggiare ritratti psicologici o di imbastire una trama consistente: suo unico scopo è quello di guidare il lettore alla scoperta di un mondo di pura bellezza, attraverso immagini che hanno la freschezza degli haiku di Matsuo Bashoo e, alla pari di questi, sono il riflesso di un atteggiamento contemplativo derivato dal quietismo taoista e dal misticismo Zen[61].

Nonostante la sua vasta conoscenza della cultura occidentale, Sooseki ci rivela in Kusamakura come la sua anima sia rimasta fondamentalmente giapponese. Egli scopre in sé una sorgente di spiritualità che sgorga da una tradizione secolare cui egli appartiene ed in cui, volere o no, si riconosce. In questa fase della sua maturazione artistica, l’esperienza dello Zen è da lui vissuta non in qualità di filosofo ma di poeta[62] e, più che un sentimento religioso, è ancora una sorta di ideale estetico che permette di realizzare un’utopistica fuga dal mondo.

Dopo Kusamakura l’atteggiamento di Sooseki cambia: d’ora innanzi egli non cercherà più di fuggire, ma anzi si calerà profondamente nella realtà umana toccandone i punti più dolenti. Anche la religiosità Zen diventera per lui qualcosa di vivo, una riserva di valori a cui attingere quando non c’è più nulla in cui credere, l’indicazione di una via di salvezza oltre la disperazione e la morte.

5.2 MON – Sooseki e le religioni organizzate.
Dovremmo quindi pensare che Sooseki fosse un cultore della disciplina Zen?

Sappiamo per certo che, un pò dopo essersi laureato, Sooseki si ritirò per qualche tempo in un monastero Zen a Kamakura. Inoltre un suo viaggio a Kyoto, effettuato nell’aprile del 1907, viene interpretato dalle lettere che Sooseki scrisse a partire da quella data, come l’inizio di un rinnovato interesse per la dottrina[63]

Interesse che ci è altresì attestato dalla fitta corrispondenza (venti lettere) ch’egli intrattenne negli ultimi anni della sua vita con due giovani accoliti Zen, Kimura Genjoo e Tomizawa Keidoo, ai quali Sooseki si rivolse per avere un qualche conforto religioso nei momenti più critici della sua grave malattia[64].

In una di quelle lettere (15 novembre 1915), scrive:

“Giunto all’età di cinquant’anni mi sono accorto di mirare ad una Via. Se penso a quando quella Via verrà raggiunta, mi accorgo della distanza che ancora mi separa e mi spavento”[65]

Ecco perché allora nel romanzo Mon il protagonista, Soosuke, recatosi in un monastero Zen per risolvere la crisi spirituale che lo tormenta, se ne torna indietro più deluso e disperato di prima.

“Egli era venuto fino alla porta ed aveva chiesto che gli fosse aperta. il guardiano era dall’altra parte e, quando egli bussò, non venne nessuno. udì una voce che diceva: “non serve bussare, aprila tu stesso”. egli rimase là a chiedersi in che modo avrebbe potuto aprirla. pensò chiaramente ad un piano, ma non riusciva a trovare la forza di metterlo in pratica. guardò indietro verso il sentiero che l’aveva guidato alla porta. gli mancava il coraggio di tornare indietro. guardò allora la grande porta che mai si sarebbe aperta per lui. non sarebbe mai riuscito a varcarla. né d’altronde sarebbe stato soddisfatto finché non gli fosse stato concesso di farlo. Egli era, allora, uno di quegli esseri infelici che devono stare vicino alla porta, incapaci di muoversi, ed attendono pazientemente la fine del giorno.”[66]

Nonostante ciò Edwin McClellan vede in questo romanzo una prova della completa estraneità di Sooseki nei confronti della religione. Scrive infatti:

“Sooseki rispettava la religione ma non poteva comprenderla. Né Soosuke in Mon, né Ichiroo in Koojin giungono perciò alla fede. Sooseki non sarebbe stato onesto se avesse permesso ai suoi protagonisti di diventare religiosi. Semplicemente, non sarebbe stato convincente se egli avesse cercato di descrivere uno stato di mente che gli era totalmente estraneo.”[67]

Già alcuni autorevoli studiosi come W.William Biddle[68], hanno messo in dubbio la totale estraneità di Sooseki nei confronti della religione, sostenendo che la semplice ricerca di qualcosa che dia un senso alla vita, pacifichi la mente, e conduca alla salvezza si possa già di per sé definire come un’esperienza religiosa.

Il fallimento di Soosuke può essere, caso mai, considerato come una prova della sfiducia di Sooseki nei confronti delle religioni organizzate, sfiducia ch’egli ebbe modo di esprimere più volte. Leggiamo ad esempio, un brano tratto dal giornale di viaggio dell’ottobre 1900 scritto da Sooseki a bordo della nave che lo portava in Inghilterra:

“Io non ho astio nei confronti del cristianesimo, anzi credo fermamente che essa sia una grande religione e coloro che possono trovare la fede in essa saranno sicuramente da essa salvati. Nonostante ciò, coloro che essi [i missionari cattolici] chiamano idolatri possono parimenti trovare salvezza nei loro modi di culto, per quanto rozzi siano, purché abbiano buona fede in essi. La religione è, dopo tutto, un fatto di fede, non una disputa od un raziocinio. Per quanto grande possa essere la concezione, quanto profondo il ragionamento, essa è soltanto un giocattolo, splendido da guardare, ma pronto a crollare a terra al primo soffio di vento. Poiché essa è soltanto un castello di carta senza solide basi che sostengano la sua enorme sovrastruttura. Pietro costruì la chiesa di Roma sulla pietra, il che, a mio parere, significa fede, nient’altro che fede. Dove c’è fede, c’è religione, c’è felicità, riposo e salvezza. L’idolatria vale quanto il Cristianesimo. Ogni cosa è giusta fin tanto che vi è fede. Senza fede il Buddhismo, l’Islamismo ed il Cristianesimo non sono altro che ingegnose invenzioni di uomini eruditi per indulgere nei loro voli di fantasia e nel potere speculativo. Che la gente creda in ogni cosa ch’è buona e giusta ai suoi occhi, ciascuno secondo il proprio grado di sviluppo intellettuale, affinché vi possa trovare soddisfazione e felicità. La mia religione sia tale che essa contenga ogni altra religione all’interno della sua trascendentale grandezza. Il mio Dio sia quel Nulla che è davvero qualcosa e che io chiamo Nulla perché, essendo assoluto, non può essere definito con un nome che implica relatività; il quale non è Cristo, né lo Spirito Santo né qualsiasi altra cosa eppure allo stesso tempo è Cristo, Spirito Santo e tutto.”[69]

Questo passo ci rivela come Sooseki, pur non aderendo a nessuna delle religioni formali, intuisse nondimeno i benefici effetti della religione, ed avesse egli stesso un particolare sentimento religioso.

Vi sono alcuni kanshi, o poesie cinesi, che Sooseki scrisse nell’ultimo anno della sua vita, in cui meglio traspare la sua attitudine in tal senso.

Quantunque cerchi la solitudine
Non sono ancora andato verso le azzurre colline.
Vivo tra gli uomini
Ma mi basta il mio sentimento per la Via.
Mentre io mi baloccavo strofinando il mio sigillo di pietra
Per tre volte diecimila ideogrammi sono scaturiti liberamente
Legati l’un l’altro da luci ed ombre[70].

O quest’altro:

Non per Cristo, né per Buddha, né per Confucio:
Negli stretti sentieri io vendo i miei scritti
Solo per mio diletto.
Quanti profumi ho raccolto ed accumulato
Attraversando il giardino dell’arte?
Attorno a quante colline azzurre e stagni
Nel bosco della poesia
Ho io vagabondato oziosamente?
In mezzo alle ceneri di libri che ardono
I libri conoscono per la prima volta la vita.
In un mondo senza legge, la legge per la prima volta
Conosce la rinascita.
Percuoti ed uccidi gli uomini pii,
Perché nel punto in cui ogni loro traccia si è dissolta
Il vuoto abisso rivelerà chiaramente il saggio e lo stolto[71]

L’ultimo kanshi scritto da Sooseki porta la data del 20 novembre 1916 (lo scrittore morirà il 9 dicembre) ed è ancora più significativo dal punto di vista religioso:

“Il sentiero che conduce alla Verità è solitario,
Lontano e difficile da trovare;
Ma io vorrei abbracciare un cuore puro
Ed unire il passato ed il presente.
Nelle acque azzurre e nelle azzurre colline
Cosa c’è del “se”?
Tutto il cielo e la terra:
Questi sono senza artificio
Nella debole luce serale la luna si ritira dalle erbe;
Nella foresta si ode la confusa voce del vento autunnale
Scorderò occhi ed orecchie, smarrirò anche il mio corpo
e solo, nel vuoto, canterò la canzone della bianca nube[72]

Al di là dei paradossi di tipo Zen, questi poemi ci rivelano l’anelito di Sooseki per una verità che non è quella cristiana, né quella buddhista, né quella confuciana. Questa Verità senza forma e senza nome è la stessa che Soosuke, il protagonista di Mon, cerca invano in un monastero Zen. Egli pensa ingenuamente che, entrando in un convento, troverà finalmente la pace. Ma Sooseki ci dimostra che questo non basta, come non basta sedersi nella posizione del loto per ore o meditare su quel difficile indovinello che è il kooan. Anzi, il protagonista di Mon, messo a dura prova dalla disciplina del tempio, sente accrescere ulteriormente il suo disagio:

“Era come se egli fosse venuto in cerca di sollievo per il mal di stomaco e gli fosse stato offerto un difficile problema di matematica con l’ammonimento: “Suppongo che tu possa meditare per un pò su di esso” Forse avrebbe anche potuto risolvere il problema, ma solo dopo che il mal di stomaco si fosse un pochino calmato.”

Per Sooseki la religione è un fatto squisitamente interiore e non ha nulla a che fare con le pratiche esterne, riti o preghiere. Solo l’intima adesione ad una fede avrebbe potuto salvare il povero Soosuke.

5.3 KOOJIN – Morte, pazzia o religione?
In Koojin, Sooseki fa dire al protagonista Ichiroo che tre sono le possibili soluzioni ai problemi esistenziali e cioé: la morte, la pazzia o la religione. Vediamo in che senso va intesa la parola “religione”.

È sorprendente, innanzi tutto, il fatto che Ichiroo, pur riconoscendo alla religione un ruolo positivo, rifiuti recisamente di delegare ad un’entità trascendentale il controllo della propria vita. Questo risulta chiaro dal seguente dialogo, in cui l’amico H cerca di convincerlo della necessità della fede religiosa.

“Cerca di non pensare a te stesso come al centro della vita… dimentica te stesso e diventerai più rilassato”[73]. E continua a parlargli di un essere superiore alla cui volontà dovrebbe abbandonarsi fiducioso:

“Lascia tutto alle sue cure; lascia che guidi la tua vita. Quando uno è su un risciò si addormenta, confidando che il guidatore lo conduca in modo sicuro dovunque egli abbia intenzione di andare.”[74]

Ma Ichiroo risponde:

“Io non conosco nessun Dio di cui mi possa fidare quanto mi fido di un conduttore di risciò”

Ichiroo è un vero figlio dell’era Meiji, che vive in modo drammatico la crisi di valori conseguente al trapasso dal vecchio al nuovo tipo di società. Spirito intelligente e sensibile, cerca di colmare il suo vuoto spirituale confidando unicamente nei poteri della ragione. Come potrebbe, quindi, accettare il concetto metafisico di un Dio, completamente estraneo alle sue categorie mentali?

Questo atteggiamento si palesa nel seguente brano tratto da un dialogo tra Ichiroo e l’amico H in cui il primo racconta all’amico:

“Mi capita spesso, sull’autobus o altrove, di sollevare gli occhi, guardarmi attorno e scoprire un viso che sembra completamente libero da preoccupazioni. Nell’istante in cui i miei occhi sono fissi su quel viso piatto ed indifferente, un profondo brivido di gioia attraversa tutto il mio essere. La mia mente rivive, come steli di riso che diano il benvenuto alla pioggia dopo un periodo di siccità. Nello stesso tempo quel viso, privo di ogni pensiero e completamente rilassato, assume un’espressione di nobiltà ai miei occhi. Sì, esso sembra pieno di nobiltà, nonostante i suoi occhi obliqui, il suo naso schiacciato, i suoi lineamenti piatti. Davanti a quel viso vorrei inginocchiarmi ed esprimere la gratitudine con un senso di devozione molto simile ad un sentimento religioso.”[75]

Più avanti l’amico H gli chiede:

“Tu dici che il viso di una persona qualunque ti rende spesso così felice; allora, non saresti centinaia di volte più felice se tu potessi unirti a Dio per sempre e venerare la sua immagine perfetta?”[76]

E Ichiroo:

“A che serve giocare con questa logica vuota, puramente verbale? Faresti meglio a portarmi Dio”.

H scrive nella sua lettera a Jiroo, parlando di Ichiroo:

“Sia il tono della voce di tuo fratello che le sue ciglia corrugate tremavano d’impazienza. Improvvisamente raccolse un sasso ai suoi piedi e spingendosi un pò verso la riva del mare lo gettò lontano nell’acqua. Egli ripetè il gesto due o tre volte come chi è arrabbiato perché tutti i suoi sforzi sono inutili. Tuo fatello [Ichiroo] camminò attorno tra le alghe che erano state gettate sulla spiaggia e di cui non conosco il nome – forse kobu o wakame. Poi tornò indietro dove ero io. “Preferisco l’uomo vivo ad un Dio morto”. Così disse tuo fratello ansimando. Ed insieme tornammo lentamente indietro verso la locanda. “Qualsiasi viso, sia quello di un conduttore di risciò, di un fannullone o di un ladro – nel preciso istante in cui mi dà gioia – è Dio, dopo tutto, no? Montagne, fiumi, mari – la natura nell’istante in cui io la sento sublime non è altro che Dio, vero? Quale altro tipo di Dio esiste?”[77]

H comprende l’amico:

“Sapevo molto bene che nella sua mente, sovraffaticata dai ragionamenti, echeggiava la parola “religione” scritta con sangue e lacrime.”[78]

L’errore di H, però, consiste nel voler indirizzare verso un preciso oggetto di fede l’anelito profondo, eppure indefinibile, che avverte nell’amico. Tutti i suoi tentativi in questo senso sono inevitabilmente destinati al fallimento, perché Ichiroo non può accettare razionalmente l’idea di un Dio diverso da se stesso. Come leggiamo nella lettera di H a Jiroo:

“Tuo fratello detesta erigere qualsiasi altra autorità all’infuori di sé, si tratti di Dio, Buddha o altri.

Eppure ciò non ha nulla a che fare con l’asserzione dell’Io di Nietzsche”[79].

“Dio sono io” afferma Ichiroo. E ad H che gli chiede se ciò non significa definirsi assoluto, egli risponde: “Io sono assoluto”.

È chiaro che un individualista come Sooseki cresciuto nel clima spirituale dell’epoca Meiji, non avrebbe potuto rispondere diversamente. Ma ‘”assolutismo” di Ichiroo non è di tipo filosofico. Ecco come ce lo spiega l’amico H:

“Egli sostiene che chi ha raggiunto una pura pace di mente dovrebbe naturalmente essere in grado di entrare in questo stato [di assoluto] senza cercarlo, e che tutte le creature – ogni oggetto possibile – svanisce, e non ci sarebbe più che il “sé”; e quel sé, in quel momento, sarebbe qualcosa di esistente eppure non-esistente, la cui definizione sarebbe impossibile. È qualcosa di grande eppure di piccolo. È qualcosa al di là di ogni descrizione. In breve, è l’assoluto. E se qualcuno, mentre partecipa a questo stato di assoluto, udisse improvvisamente il suono di un allarme d’incendio, allora quel suono sarebbe il suo “sé”. In altre parole l’assoluto diventa il relativo stesso. Di conseguenza, non è più necessario preoccuparsi di proiettare le cose ed oggettivare gli altri al di fuori di sé; non si dovrebbe neppure temerne la possibilità”[80]

Ecco che allora la definizione di “Io” assoluto di Ichiroo viene a coincidere con quella zenista di un “Io” cosmico che trascende tutte le differenze individuali e si manifesta in ogni anima. La dottrina Zen non ha un termine preciso per indicare questa Entità assoluta. A volte la definisce “mente”, oppure “natura primordiale””, ma essa non è altro che l’unità fondamentale dell’esistenza che sta alla base di tutti gli esseri umani e ne costituisce l’essenza più intima. Ed Ichiroo sente che non può cercare questa Realtà al di fuori di sé, come gli suggerisce l’amico, perché essa è dentro di lui, nel suo cuore. Tuttavia non riesce ad afferrrarla, perché la sua mente è troppo tesa. Nello sforzo di capire, di controllare ogni cosa, di giustificare tutto razionalmente, egli è diventato un essere infelice, sempre più lontano dalla verità cui aspira. Anche l’amico H lo sa:

“Di gran lunga superiore [agli altri] per la sua capacità introspettiva, tuo fratello [Ichiroo] adesso soffre di coercizione come conseguenza del suo eccessivo raziocinio. In qualsiasi disposizione di mente sia, egli non sa più andare avanti se non sottopone prima ad esame il suo comportamento. Ecco perché il flusso della sua vita è interrotto ad ogni istante. Dev’essere fastidioso come dover correre al telefono ogni momento durante i pasti. Ma è la sua mente che interrompe, ed è sempre essa che viene interrotta; in ultima analisi, egli è controllato da queste due menti che si accusano l’un l’altra da mattino a sera proprio come suocera e nuora. Perciò non ha mai un momento di pace. Da ciò che tuo fratello mi ha detto, posso ora capire cosa intendesse quando asserì di notare un’espressione di nobiltà sul volto di uno che non pensa a nulla. Questa conclusione era stata completamente un prodotto dei suoi ragionamenti. Eppure proprio a causa di questi ragionamenti, egli è incapace di entrare in quella desiderata condizione. Egli ha condotto uno studio sulla felicità con la speranza di diventare felice. Tuttavia, per quanto possa studiare, la felicità gli sfugge continuamente.”[81]

Ichiroo, cioé, a causa del suo eccessivo egocentrismo, non è più in grado di vivere una vita naturale. La sua spontaneità è stata distrutta dall’atteggiamento di continuo auto-scrutinio cui si sottopone. Lo stato di Ichiroo si potrebbe paragonare a quello di chi volesse camminare sollevando le proprie gambe con le mani ad ogni passo, sperando a questo modo di aumentare la propria velocità: in realtà camminerebbe molto più spedito se lasciasse le sue gambe libere di agire spontaneamente. Allo stesso modo, chi si propone di essere felice, ben difficilmente raggiunge la felicità, perché essa non è frutto di calcoli, ma un atteggiamento spontaneo dell’anima.

In uno dei più importanti testi taoisti, il Lieh-tzu, leggiamo a questo proposito il seguente brano:

“Yin Hsi del valico disse: A chi nulla trattiene in sé la ragione delle cose appare chiara. Egli si muove come l’acqua, sta quieto come uno specchio, risponde come un’eco. Perciò la sua Via (Tao) è di conformarsi alle creature. Le creature s’allontanano dal Tao, il Tao non s’allontana dalle creature. Chi ben si conforma al Tao non si serve né d’orecchi, né di forza, né di mente. È inappropriato volersi conformare al Tao e cercarlo per mezzo della vista, dell’udito, della forma e della sapienza. Quando lo si contempla davanti, ecco che subito è dietro, più si disperde più è pieno, le sei linee degli esagrammi non ne parlano, non si sa dove sia. Non è cosa che chi vi mette intenzione possa allontanare e chi non vi mette intenzione possa avvicinare.cVi si perviene solo nel silenzio e vi perviene solo chi lo perfeziona nella propria natura. Sapere e obliare le passioni, essere capace e non agire, è la vera sapienza e la vera capacità.[82]

L’atteggiamento di Ichiroo può essere meglio illustrato da questa graziosa parabola taoista:

“Il millepiedi era felice, tranquillo
Finchè un rospo non gli disse per scherzo:
“In che ordine si muovono le tue zampe?”
Questo arrovellò a tal punto la sua mente,
Che il millepiedi giacque perplesso in un fossato
Riflettendo su come muoversi.

Vera virtù, secondo il Taoismo, è il t’e (in giapponese toku), facoltà creativa spontanea e naturale, che s’inceppa quando ci si sforza di dominarla:

“Segui la tua natura, ed accordati con il Tao
Girovaga e cessa il tormento
Se i tuoi pensieri sono legati
Tu guasti ciò che è genuino…
Non opporti al mondo dei sensi,
Perché quando non ti opponi,
Esso torna essere eguale al perfetto Risveglio.
La persona saggia non si sforza [Wu-wei];
L’ignorante si tiene legato…
Se tu operi sulla mente con la mente,
Come puoi sfuggire ad un’immensa confusione?”[83]

La mente, secondo, lo Zen, dev’essere:

“Come uno specchio che vede
Ma non può vedere se stesso”

Ichiroo, in ultima analisi, soffre perché incapace di essere spontaneo. Tutta la sua vita, costruita su un elevato standard di rigide distinzioni tra bene e male, tra vero e falso, bello e brutto, gli si rivela come un misero castello di falsità. Vorrebbe essere un uomo semplice, pratico, come il suo, amico H. Infatti lo supplica:

“Come potrei cambiare da uomo speculativo a uomo pratico? Dimmelo, per favore”[84]

H risponde:

“Oh, ma è qualcosa al di là delle mie possibilità”.

E Ichiroo:

“Sì, tu lo puoi.
Tu sei un uomo nato per essere pratico.
Per questo sei felice.
Per questo sai essere così tranquillo.”

Durante una passeggiata, in mezzo ai campi, i due amici si fermano ad osservare alcuni granchi che si arrampicano lungo fili d’erba.

“Alla base degli steli d’erba stava strisciando un granchio, uno piccolo, non più grosso di un’unghia di pollice.

Non era il solo comunque, perché, mentre stavo osservando, ne sopraggiunse un altro, un terzo e poi ancora ed il loro numero crebbe rapidamente finchè essi brulicarono tutt’intorno.”[85]

Ichiroo li osserva incantato. Anche H è felice di vedere l’amico tutto assorto nella contemplazione di quelle bestiole. Più tardi scriverà nella sua lunga lettera a Jiroo:

“Vorrei fornirgli qualcosa che ammaliasse del tutto la sua mente, tanto da non lasciargli più spazio per la sua attività indagatrice – qualcosa di accattivante come, ad esempio, tutte le opere d’arte, o tutte le montagne eccelse ed i potenti fiumi o tutte le belle donne del mondo. E per un anno o più vorrei tenerlo completamente sotto l’influsso del loro fascino. Dopo tutto, il desiderio di tuo fratello di possedere le cose sembra significhi essere posseduto dalle cose, no? Di conseguenza, essere assolutamente posseduti dalle cose, io penso, è un modo per possederle assolutamente. Solo allora tuo fratello che non crede in Dio, troverà la sua pace di mente in questo mondo”[86]

Queste parole di H ci rivelano come Sooseki fosse intimamente convinto che la contemplazione della Natura e della Bellezza, condotta nello spirito degli haiku, che è quello stesso del Taoismo e dello Zen, è il solo mezzo che permette all’uomo di riconquistare la spontaneità, condizione essenziale per scoprire quella profonda realtà che giace nel suo cuore e lo unisce a tutti gli esseri viventi. Ed è solo realizzando questa unione che l’uomo, per Sooseki, può essere felice.

5.4 MEIAN – La soluzione incompleta
Chi non riesce a sollevare lo sguardo oltre il proprio piccolo, egoistico “sé”, come Sensei in Kokoro, Soosuke in Moon, Daisuke in Sorekara o Kenzoo in Michikusa, è un essere condannato al fallimento ed alla solitudine. Se Sooseki avesse potuto terminare il suo ultimo romanzo Meian, probabilmente ci avrebbe presentato in esso un esempio di completa rigenerazione spirituale.

Infatti, solo un mese prima di morire, Sooseki scrisse ad un amico:

“Ultimamente sono entrato in un certo stato [di mente] che chiamerei Sokuten kyoshi, benchè qualcun altro possa definirlo diversamente. è qualcosa di questo genere: dimenticare il piccolo “sé” che io di solito considero come “me stesso” ed abbandonarlo ai dettami di un “sé” più grande ed universale, per così dire. Ma non so descriverlo adeguatamente con le parole. E in questo stato tutte le affermazioni, tutti gli ideali e tutte le dottrine, per quanto grandiose, cominciano ad apparire banali, mentre quelle cose che di solito sembrano insignificanti, trovano spazio per la loro esistenza… In questa disposizione d’animo sto scrivendo Meian.”[87]

Il romanzo, purtroppo, s’interrompe proprio quando il protagonista, Tsuda, uomo molto introverso e deluso dalla vita, rivede Kiyoko, la donna che un tempo amava e che era rimasta sempre in fondo ai suoi pensieri. Kiyoko sembra a lui ed a noi l’immagine della bellezza che dona la pace. Ecco come ce la presenta Sooseki:

“Kiyoko sorrise, semplicemente. Non c’era alcun atteggiamento di difesa in quel sorriso. Uno avrebbe perfino potuto dire che ci fosse una qualche serenità in esso. Tsuda, che aveva incominciato a mentire, pensò soltanto che il suo stato d’animo diventava via via più tranquillo…”[88]

“Il viso di Kiyoko…era più roseo di quanto Tsuda si ricordasse. Ma ciò non poteva essere semplicemente spiegato con l’effetto fisiologico dell’intensa luce autunnale che brillava direttamente su di lei. Quando, dopo aver guardato le colline, egli notò i lobi delle sue orecchie, tinti di rosso come se avesse subito un incantesimo, egli pensò che il motivo poteva esser questo. I suoi lobi erano sottili e pareva che, a causa della sua posizione, la luce del sole che si effondeva al di là di esse, raggiungesse lui solo dopo essere passata attraverso i vasi sanguigni che li attraversavano”[89]

Davanti a Kiyoko Tsuda non ha più bisogno di fingere:

“Egli comprese improvvisamente che il suo ricordo di lei riviveva senza sforzo. Il senso di imbarazzo che egli aveva fino allora provato era stranamente svanito… e si trovò seduto di fronte a lei in uno stato di completo riposo.”[90]

L’espressione Sokuten kyoshi letteralmente significa: “seguire il cielo ed abbandonare il sé”.

Secondo il parere di molti studiosi, questa formula racchiude l’essenza del pensiero religioso di Natsume Sooseki. Ma, mentre il significato della seconda parte, cioé kyoshi è abbastanza chiaro, in quanto allude a valori Taoisti e Buddhisti[91] ed in particolare a quello stato di incoscienza di sé che lo Zen definisce muga di cui abbiamo già parlato, l’interpretazione della prima parte ossia sokuten è piuttosto difficile.

Che cosa intende dire Sooseki con l’espressione “seguire il cielo”?

Etoo Jun spiega la parola “cielo” nel senso confuciano del termine e vede in Sooseki la sopravvivenza di un sistema “privato” di valori confuciani.

“Secondo l’etica confuciana in generale, e l’etica di Chu Hsi in particolare, il valore dell’esistenza umana è determinato soltanto dalla sua connessione con il trascendentale T’ien (tradotto generalmente con “cielo”). Se egli è scisso da questa sorgente trascendentale di valori, diventa un essere indegno – praticamente un nulla. Educato in questa stretta tradizione di Chu Hsi, Sooseki non poteva tollerare l’esistenza di un suo proprio nudo “ego”, interamente separato da ogni valore trascendentale”[92]

Etoo Jun spiega perfino la disperazione sofferta da Sooseki durante il soggiorno in Inghilterra come conseguenza dell’impatto tra l’etica tradizionale confuciana di cui il suo spirito era imbevuto ed i valori morali della società occidentale di quei tempi. Anche William W. Biddle sostiene questa interpretazione della parola sokuten, ricordando come il Giappone dell’era Tokugawa fosse completamente permeato di etica confuciana, con le sue virtù cardinali di pietà filiale, lealtà, obbedienza e rispetto verso l’autorità, mediante le quali si realizza nella vita umana quello stesso ordine che, emanato dal Cielo, regola la vita dell’intero Cosmo[93].

Nell’epoca Meiji, nonostante la minaccia rappresentata sia dalle correnti del pensiero occidentale che dall’ascesa dello shintoismo al livello di religione dello stato, la dottrina confuciana continua a rappresentare la norma, che influisce profondamente sui sistemi pedagogici e costituisce la base dei doveri civili e sociali. Perciò, secondo Biddle, Sooseki non può essere del tutto estraneo a questa corrente di pensiero, e cita a questo proposito un saggio, Bungei to Dootoku (Letteratura e Moralità) del 1911, in cui lo scrittore dimostrerebbe la propria personale convinzione della validità dei canoni confuciani. Sokuten kyoshi sarebbe allora una sintesi di precetti buddisti (kyoshi) e confuciani (sokuten).

Il Prof. Valdo H. Viglielmo invece, ci dà un’interpretazione della parola sokuten di natura affatto diversa. Ten, ci dice, è da intendere come “Amore”, nel significato cristiano del termine. Egli parte dal presupposto che Sooseki, avendo acquisito una vasta conoscenza della letteratura inglese e, in generale, della letteratura occidentale, non può non aver assimilato, anche solo a livello inconscio, qualche elemento del pensiero cristiano. Come prova di questo argomento ci illustra il concetto di amore in Sooseki. Secondo Viglielmo:

“Pochi romanzieri in Occidente hanno così attentamente e dettagliatamente dimostrato l’opera dell’amore ed il terribile vuoto che risulta dalla sua assenza. Egli ci presenta un mondo in cui esseri umani muoiono o, ancor peggio, sono incapaci di morire, per il desiderio di amore e l’incapacità di amare”[94]

Passa quindi a descrivere le caratteristiche di questo amore che, come traspare dai romanzi di Sooseki, non si identifica né con il concetto di eros, né con l’ideale buddhista di jihi (compassione), né, tantomeno, con quello confuciano di jin(benevolenza), ma piuttosto con quello cristiano di agape, cioé di un amore che redime. Secondo Viglielmo, la figura di Kiyoko, nel romanzo Meian, va paragonata a quella della Sonia di Dostoievskij. D’altro canto, secondo questo studioso, se l’uomo per Sooseki deve abbandonare il proprio “ego”, non sarà più in grado di salvarsi con le sue proprie forze (jiriki), ma dovrà contare su di una forza estranea a sé (tariki) che egli identifica con l’ideale cristiano di amore. Viglielmo ravvisa alcuni altri elementi cristiani in Sooseki: il senso del peccato, il tormento generato dall’egoismo e dalla mancanza di amore e la brama della salvezza e della pace spirituale. Perciò conclude dicendo che

“Sooseki è uno dei primi autori, se non davvero il primo, in cui tutte le maggiori religioni del mondo si incontrano”[95].

Queste interpretazioni del motto sokuten kyoshi ci sembrano molto interessanti e contengono certamente una parte di verità. Molti sono infatti gli elementi che concorrono alla formazione del pensiero e della personalità di questo romanziere: il misticismo Zen, lo spirito contemplativo degli haiku, il quietismo taoista e l’etica confuciana si uniscono e si fondono con la cultura occidentale ed il pensiero cristiano, realizzando nella persona di Sooseki una mirabile sintesi di Oriente e di Occidente. Conosciamo, attraverso le sue opere, il lungo travaglio spirituale che lo condusse alla ricerca disperata di una soluzione al problema dell’infelicità umana. Sappiamo che, pur non trovando una precisa risposta, seppe quantomeno indicarci una Via. Una Via non definita con parole o spiegata con concetti, ma soltanto suggerita con bellissime immagini poetiche, come queste:

“…Cinque decadi di primavere e di autunni
Non sono che il respiro di un momento.
Contemplando la Via, senza una parola,
Entro semplicemente nella quiete.
Componendo poesie – un verso o poco più –
Solo, io cerco la purezza.
Lontano, molto al di là dei cieli,
Le forme delle vaganti nubi
E nel sospiro del vento
il suono delle foglie che cadono…”[96]

Tentando di definirla, potremmo dire che essa è la Via della Natura, della Bellezza e della Poesia.

6 CONCLUSIONE
Speriamo che lo scopo di questa tesi, cioé dimostrare, attraverso l’esempio di un grande romanziere moderno, come la letteratura giapponese sia intimamente pervasa di religiosità, sia stato raggiunto.

Forse “religiosità” non è la parola più adatta, perché essa è un termine troppo pomposo, in cui risuona l’eco di tradizioni di culto occidentali e quindi mal si adatta ad esprimere quella sottile spiritualità che permea l’anima giapponese e ne informa ogni manifestazione esterna.

Religiosità giapponese significa Zen. Lo Zen in Giappone si respira nell’aria, si pratica nella vita, è un elemento onnipresente. Possiamo chiedere ad un giapponese che cos’è lo Zen e, nella maggior parte dei casi, non saprà rispondere o ci darà una risposta evasiva. Ma lo Zen è presente anche dentro di lui e, senza ch’egli se ne renda conto, informa i suoi pensieri, ispira i suoi gusti, si rivela nei suoi gesti.

Sooseki fu una personalità assai complessa. Crebbe in un Giappone agitato da fermenti innovatori, in un’epoca di crisi politica, sociale, spirituale. Pochi studiosi del suo tempo poterono vantare una conoscenza della cultura occidentale pari a quella ch’egli conseguì nei due anni trascorsi in Inghilterra. Aveva alle spalle una vasta preparazione classica e la sua educazione si era compiuta alla luce dei più rigidi valori confuciani. Spirito indipendente, individualista al massimo, cercò per tutta la vita di essere nient’altro che se stesso. Pure anch’egli, quando volse lo sguardo dentro di sé, scoprì poco alla volta l’immenso valore della religiosità Zen che giaceva sepolta in fondo alla sua anima di giapponese. Lo Zen come disciplina o religione organizzata non lo interessò che assai superficialmente: ma la spiritualità Zen pervade tutte le sue opere. è Zen il suo modo di guardare all’essenza delle cose e per cogliere la loro “quiddità” misteriosa. Zen il suo anelito a disciogliersi in esse, superando le barriere del proprio egoismo e del gretto raziocinio. Soltanto in questo senso i romanzi di Natsume Sooseki possono essere considerati un simbolo della religiosità nella letteratura giapponese.

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[47] Scalise, Mario: Romanzieri giapponesi moderni – Jun’ichiroo Tanizaki e Yasunari Kawabata – Studio critico, Milano, 1966

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[49] Shimoda, Kazushi – Noguchi, Takehiko – Yamazaki, Tadakazu – Ino, Kenji: Kindai Bungaku: Sakka to sono sekai -1, Asahi Shinbun Sha, Tokyo, 1975

[50] Sibley, William F.: Mon by Natsume Sooseki Translated by Francis Mathy, Monumenta Nipponica, XXVII, 4, 1972, pp. 455-457

[51] Sooseki Zenshuu Kankookai (ed.): Sooseki Zenshuu, Tokyo, 1928

[52] Storry, Richard: A history of modern Japan, Penguin Book, London, 1969

[53] Suzuki, D. T.: Essays in Zen Buddhism, Voll. 1, 2, 3, Rider and Co., London, 1974

[54] Suzuki, Susumu: Buson to Haiga, Shoogakukan, Tokyo, 1976

[55] Thich, Nhat Hanh: Introduzione allo Zen, Sonzogno, Milano 1974

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[59] Turney, Alan: Sanshiroo, A novel by Natsume Sooseki Translated by Jay Rubin, Monumenta Nipponica, XXXIII, 2, 1978, pp. 215-216

[60] Ueda, Makoto: Natsume Sooseki in Ueda, Makoto (ed.) Modern Japanese writers and the nature of literature, Stanford University Press, 1976, pp. 1-25

[61] Viglielmo, Valdo H.: An introduction to the later novels of Natsume Sooseki, Monumenta Nipponica, XIX, 1/2, 1964, pp. 1-37

[62] Watts, Alan W.: La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960

[63] Yu, Beong Cheong: Natsume Sooseki, Twayne, New York, 1969

APPENDICI

A.1 PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE DI “HIGAN SUGI MADE”

Higan sugi made, romanzo che comparve a puntate sull’ Asahi Shinbun dal 1. gennaio 1912, fu scritto da Sooseki dopo uno dei periodi più cruciali della sua vita. Dall’ultima puntata del romanzo Mon (1910) era passato esattamente un anno e mezzo in cui Sooseki non aveva letteralmente toccato la penna. Ristabilitosi un pò da una grave forma di ulcera allo stomaco, nel febbraio del 1911 Sooseki aveva rinunciato al dottorato onorifico che il Ministero dell’Educazione gli aveva offerto, suscitando grande scalpore. Dal giugno all’agosto dello stesso anno, era stato impegnato da una tournée di lezioni, prima per conto della Società per l’Educazione della Prefettura di Nagano, e quindi su invito della casa editrice dell’Asahi Shinbun di Osaka. Forse a causa dell’eccessivo strapazzo, ad Osaka Sooseki ebbe una nuova crisi di ulcera che lo costrinse ad un mese di ricovero presso un ospedale di quella città.

Ritornato a Tokyo in settembre, dovette sottoporsi ad un delicato intervento chirurgico per una fistola anale che lo lasciò sofferente per molto tempo. Alla fine di novembre morì improvvisamente la sua figlioletta Hinako all’età di due anni. Il giorno dei funerali della bambina, il 3 dicembre 1911, Sooseki scrisse:

“Un’ulcera si è sviluppata nel mio stomaco, ma io sento che un’ulcera si è sviluppata anche nel mio spirito”.

Il titolo Higan sugi made è un esempio della scarsa considerazione data da Sooseki ai titoli delle sue opere e qui significa semplicemente che l’Autore si proponeva di far durare la pubblicazione a puntate fino alla primavera, cosa che infatti fece. L’ultima puntata porta la data del 29 aprile 1912.

L’opera è composta da una lunga prefazione cui seguono sette racconti di varia lunghezza e che hanno, nell’ordine, i seguenti titoli: Furo no ato (Dopo il bagno), Teiryuujo (La fermata del tram), Hookoku (Il resoconto), Ame no furu hi (In un giorno di pioggia), Sunaga no hanashi (Il racconto di Sunaga), Matsumoto no hanashi (Il racconto di Matsumoto), Ketsumatsu (Conclusione).

Nel primo racconto Keitaroo, un giovane in cerca di avventure, ascolta gli strani racconti di viaggio di un vagabondo di nome Morimoto che abita nella sua stessa pensione (geshuku). Costui narra le sue avventure dopo che hanno preso il bagno: di qui lo strano titolo. Una settimana dopo, Morimoto scompare improvvisamente senza neppur pagare l’affitto della pensione. Più tardi scriverà una lettera a Keitaroo dicendogli che ha trovato lavoro come direttore di un Luna park e gli regala il suo bastone da passeggio che ha dimenticato nella camera della pensione, raccomandandogli di farne buon uso. Questo strano bastone di foggia occidentale, sormontato da una testa di serpente, accompagnerà Keitaroo nei racconti successivi come una specie di amuleto.

Nel secondo racconto vediamo Keitaroo ingaggiato come detective da un uomo d’affari di nome Taguchi. Il suo compito è quello di pedinare un uomo sulla quarantina che, sceso dal tram ad una certa fermata, sembra avere un segreto appuntamento con una donna di giovane età.

Nel racconto successivo Hookoku, Keitaroo riferisce a Taguchi l’esito delle sue indagini e scopre di essere stato beffato. L’uomo misterioso, infatti, altri non è che Matsumoto, il cognato di Taguchi e la ragazza la figlia Chiyoko dello stesso Taguchi. Quest’ultimo ha giocato questo tiro a Keitaroo per deridere il suo ingenuo desiderio di avventura.

Ame no furu hi tratta invece della morte della figlioletta di due anni di Matsumoto. Fra tutti è il racconto più bello e toccante perché tratto dall’esperienza stessa di Sooseki e ci rivela l’atteggiamento di questo artista di fronte al problema della morte. Keitaroo si reca con una lettera di raccomandazione ma non viene ricevuto da Matsumoto. Un giorno, mentre è in visita dal suo amico Sunaga, nipote di Matsumoto, arriva anche Chiyoko ed i due cugini scherzano con lui, attribuendo la sua sfortuna di non essere ricevuti dallo zio al fatto di non aver portato con sé il famoso bastone-amuleto di Morimoto. Keitaroo, dietro le insistenze della ragazza che vuole vedere questo bastone magico, promette che glielo farà vedere, a patto che essa racconti il motivo dello strano comportamento dello zio. Allora Chiyoko rivela la ragione vera: Matsumoto non riceve più ospiti in un giorno di pioggia, perché fu proprio in un giorno così che la figlioletta Yoiko era improvvisamente morta, mentre lui stava intrattenendo un ospite in salotto. Il resto del racconto è la descrizione di questo triste episodio visto attrverso gli occhi di Chiyoko. La caratteristica più saliente di Ame no furu hi è l’assoluta mancanza di sentimentalismo. Anzi, si può dire che proprio dal controllo dei sentimenti e dalla estrema sobrietà del linguaggio derivi un pathos più intenso ed autentico. La morte, sia pure di un bimbo, non è descritta come qualcosa di tragico, ma è accettata come un fatto naturale, con dolore composto e rassegnato. Secondo lo Zen, che cos’è la morte, se non un differente aspetto della vita?

Nei racconti successivi l’attenzione di Sooseki si sposta da Keitaroo a Sunaga. Sunaga no hanashi tratta delle sofferenze del giovane Sunaga a motivo del suo tormentato amore per Chiyoko, fatto contemporaneamente di attrazione e ripulsione, generosi slanci e cieco egoismo.

Matsumoto no hanashi è, infine, l’analisi del rapporto Sunaga-Chiyoko fatta dallo zio alla luce di particolari criteri etico-religiosi. Qui, ancora una volta, Sooseki pone l’accento sul tema dell’egocentrismo come causa di dolore ed indica nell’oblio del sé e nell’auto-dissolvimento, l’unica soluzione al problema dell’infelicità.

A.2 FIN DOPO L’EQUINOZIO DI PRIMAVERA

Se devo confessare la verità ai miei lettori, avrei già dovuto cominciare a pubblicare questo romanzo a partire dall’agosto dello scorso anno. Poi, però, ci sono state persone molto gentili che si sono preoccupate di dirmi che non era conveniente mettersi a lavorare nel gran caldo dopo una grave malattia e quindi approfittando del consiglio sono partito dall’idea di prendermi due mesi di riposo. Ma una volta giunto in ottobre ho continuato a lasciar dormire la penna, arrivando così a novembre e poi a dicembre con la carta immacolata. È chiaro però che non me la sentivo di lasciar andare a rilento quello che è il mio lavoro.

Quando all’inizio dell’anno finalmente ho preso la drastica decisione di cominciare, ho provato un senso di sollievo più per la sensazione che era giunto il momento di scaricare un peso dalle spalle che per la soddisfazione di lasciar espandere ciò che per tanto tempo era stato compresso. Ma ora se mi metto a pensare a come fare per compiere questo mio dovere finora così trascurato, ecco che provo un nuovo dolore.

C’è in me il desiderio di scrivere qualcosa il più possibile interessante, visto che è ormai molto che ho smesso di scrivere. A questo si aggiunga la gentilezza dei colleghi che hanno mostrato un atteggiamento dettato da spirito di grande comprensione nei confronti del mio stato di salute e delle altre mie condizioni ed inoltre la gentilezza dei lettori che seguono le cose che io scrivo come un compito quotidiano e che richiedono da parte mia una ricompensa. Quindi sto sforzandomi di trovare qualcosa di veramente interessante. Purtroppo non è che con la forza del pensiero si riesca a modificare il risultato di uno scritto e per quanto pensi di fare qualcosa di buono è legge generale che l’autore stesso non riesca a prevedere se la sua opera verrà fuori come pensa oppure no. Ecco quindi che non ho il coraggio di dichiarare pubblicamente che riuscirò con quest’opera a compensare i lettori del mio lungo silenzio. E qui sta la spina che mi tormenta.

Al momento di pubblicare questo lavoro, queste sono le sole cose che mi sento di dire. Non vedo la necessità di raccontare né la natura del racconto né la mia opinione in proposito. A dire il vero se io non sono uno scrittore naturalista non sono neanche impressionista. E meno ancora un neoromantico, parola oggi così di moda. Io tengo in alta considerazione tutte queste scuole e più queste attirano l’attenzione delle persone comuni, meno io mi sento di bagnare la mia opera nella stessa tintura. Anzi sono uno che non ritiene necessaria una tale sicurezza e che si debba essere se stessi. Ed allora io non mi curo di essere altro che me stesso, si tratti pure di essere naturalista, impressionista fino a romantico col “neo” davanti.

È desiderabile che uno annunci che la propria opera è nuova, ma io penso da lunga data che le persone che al giorno d’oggi cercano indiscriminatamente il nuovo, si trovano al negozio di abbigliamento di mitsukoshi e a yankee e sono alcuni scrittori e critici dell’ambiente letterario.

Io non voglio stampare il marchio di fabbrica delle mie opere prendendo a prestito le vuote parole alla moda che vengono usate a vanvera negli ambienti letterari, ma voglio scrivere cose che sento mie. L’unica mia preoccupazione è di fare uno sgarbo offrendo ai lettori un’opera inferiore per mancanza di capacità oppure un’opera che finge di essere superiore per ostentazione.

Contando le edizioni di tokyo e di osaka, gli abbonati all’asahi shinbun sono parecchie centinaia di migliaia. Non so in mezzo a questi quanti siano quelli che leggono i miei racconti, ma certo la maggior parte non ha mai avuto l’esperienza di sbirciare dentro i circoli letterari. Penso invece che vivano respirando onestamente l’aria come uomini e nulla più, ed io mi ritengo fortunato di poter portare davanti a questi comunissimi uomini le mie opere.

“Fin dopo l’equinozio di primavera” è un titolo veramente difficile e che in realtà vuol dire che avendo iniziato a sciverlo da capodanno, prevedo di continuarlo fin dopo l’equinozio di primavera. Pensavo se non sarebbe stato interessante un romanzo a puntate su un giornale che fosse composto da un certo numero di racconti brevi che da qualche tempo andavo accumulando. Sono però arrivato fino ad oggi senza avere la possibilità di tentare ed ora vorrei provare, se le mie capacità me lo consentono, a scrivere questo “fin oltre l’equinozio di primavera”, secondo le mie idee. Però un romanzo, a differenza del disegno di un architetto, per quanto di poco valore, deve contenere azione e sviluppo, mentre è legge generale che in questo mondo reale i nostri piani incontrino degli ostacoli inaspettati e quindi anche se parto con l’idea di scrivere in certo modo, può darsi benissimo che le cose non si svolgano secondo i miei piani. Pertanto questo è forse un problema che appartiene interamente al futuro per cui bisogna aspettare per vedere come va a finire. Ma se l’intento non viene raggiunto, prevedo che ci sarà soltanto una successione di racconti brevi. Anche così mi riterrò soddisfatto.

A.3 IN UN GIORNO DI PIOGGIA

1.

Lungo tempo passò senza che venisse l’occasione di sentire dalla bocca di Matsumoto la ragione per cui in un giorno di pioggia egli si rifiutò di vedere Keitaroo. E questi, preso dai suoi lavori, finì per dimenticarsene. L’occasione per venirne a conoscenza si presentò quando egli, per l’intervento di taguchi allo scopo di ottenere un posto, divenne intimo della casa di quest’ultimo. In quel tempo nella sua testa l’esperienza della fermata aveva già perso quel sapore di nuovo. Egli di tanto in tanto tentava di tirar fuori la storia da sunaga, ottenendone solo un mesto sorriso. Sunaga chiese insistentemente, rivolgendosi a lui, perché non gli avesse rivelato tutto quanto. Fu anche rimproverato dalla madre perché avrebbe dovuto sapere che lo zio di uchisaiwaichoo prendeva in giro le persone. Infine gli si rise anche dietro dicendogli che aveva troppo fascino. In quell’occasione Keitaroo ne era venuto fuori con un “non dire stupidaggini”, ma dentro il suo cuore si ricordava sempre la figura di donna che si allontanava che aveva visto davanti alla porta di Sunaga. Si ricordava in altre parole che quella era la donna della fermata. Ed allora chissà perché provava un sentimento di vergogna. Ora per Keitaroo la notizia che il nome di quella donna era Chiyoko e che quello della sorella minore era Momoyoko non era per nulla straordinaria.

Egli, incontratosi con Matsumoto, si fece raccontare tutti i retroscena della storia ed anche se si sentiva un pò imbarazzato a presentarsi davanti a Taguchi, perché capiva che si sarebbe fatto rider dietro, pure capiva che non andandoci, non sarebbe riuscito a mettere in chiaro tutta la vicenda. Ed infatti quando si presentò nuovamente alla porta di Taguchi, questi cominciò a ridere forte. Però Keitaroo interpretò che in quella risata più che l’orgoglio per il successo dei propri piani, si sentiva la soddisfazione per aver riportato sulla retta via una persona in difficoltà. Taguchi in quell’occasione non usò affatto parole che facessero rilevare il favore che aveva fatto, soltanto mise in chiaro che, siccome non l’aveva fatto con cattiva intenzione, non bisognava prendersela e gli promise che gli avrebbe procurato subito il posto che cercava. Indi battendo le mani chiamò la ragazza che allora stava aspettando Matsumoto alla fermata e gliela presentò formalmente come sua figlia. E lo stesso fece alla figlia presentando Keitaroo come amico intimo del signor Ichi. E la ragazza, con l’aria di non capire il perché della presentazione, fece un saluto molto cortese. Fu in quell’occasione che Keitaroo venne a conoscere il nome Chiyoko.

Questa fu l’occasione che segnò l’inizio dei rapporti con la casa di Taguchi, perché Keitaroo anche in seguito, per necessità o per visita, andò molto spesso a trovarlo. Naturalmente si presentò anche la necessità di entrare più dentro nella casa. Capitò che la moglie lo chiamasse all’interno a fare qualche lavoretto o che il figlio maggiore che frequentava la scuola media, gli facesse domande di inglese che lo mettessero in imbarazzo. Al crescere del numero delle visite di Keitaroo, naturalmente aumentavano le occasioni di avvicinarsi alle due ragazze, ma sia per il suo modo di fare un pò impacciato, sia per l’atmosfera un pò tesa della casa e sia per la brevità del tempo in cui stavano seduti faccia a faccia, egli fu facilmente messo in una situazione in cui era difficile mettere in chiaro le cose. Naturalmente le parole che tra di loro venivano scambiate non erano solo rigide parole formali, ma il tutto si esauriva nel giro di cinque minuti sì che l’intimità non riusciva a svilupparsi. Fu solo verso la metà di gennaio durante la gara di karuta che essi poterono finalmente sedersi in pubblico faccia a faccia a fare discorsi non pieni di reticenze formali. In quell’occasione Keitaroo si sentì dire da Chiyoko: “lei è veramente molto lento” e da Momoyoko: “non mi piace giocare in coppia con lei, perché sono sicura di perdere”.

Da quella volta passò un mese e mezzo e mentre Keitaroo per la prima volta da lungo tempo passava il pomeriggio della domenica al primo piano da Sunaga, incontrò Chiyoko che lo andava a trovare. E mentre tutti e tre parlavano del più e del meno senza riuscire a trovare un argomento di conversazione , improvvisamente venne a Chiyoko di parlare di Matsumoto.

“Quel mio zio è veramente strano. È già capitato che appena si mette a piovere per un po’ rifiuta di vedere ospiti. Chissà se è ancora così?”

2.

“Anch’io sono uno di quelli che ha rifiutato di vedere in un giorno di pioggia…” disse Keitaroo mentre Sunaga e Chiyoko si mettevano a ridere come se si fossero messi d’accordo.

“Sei veramente un uomo sfortunato. Forse perché non eri andato con quel bastone?” disse Sunaga cominciando a prenderlo in giro.

“Non serve andare con il bastone in un giorno di pioggia, nevvero, sig. Tagawa?”. Sentendo queste parole anche Keitaroo fece un mesto sorriso. E Chiyoko:

“Ma dica, sig. Tagawa, questo bastone che razza di bastone è? Lo vorrei proprio vedere. Eh, sig. Tagawa, me lo fa vedere? Non vuole andare al piano di sotto a prenderlo?”

“Oggi non l’ho portato”.

“Perché oggi non l’avete portato? E dire che è una così bella giornata.”

“Siccome è un bastone prezioso, per quanto il tempo sia bello, nei giorni qualunque non lo porto.”

“Davvero?”

“Proprio così”

“Quindi lo tirate fuori solo in giorni particolari”

Keitaroo si trovava un pò a mal partito a far fronte, lui solo, contro due. Con la promessa però di portare il bastone con sé la volta prossima che fosse andato ad uchisaiwaichoo, riuscì poco alla volta ad allontanare le insistenti domande della ragazza. In compenso stabilirono che Chiyoko avrebbe raccontato le ragioni per cui Matsumoto aveva rifiutato il colloquio in un giorno di pioggia.

La cosa capitò nel tardo pomeriggio di una giornata nuvolosa di novembre. Chiyoko aveva avuto in consegna dalla madre il riccio di mare che piaceva tanto a Matsumoto e l’aveva portato fino allo stecconato. Matsumoto aveva la figlia più grande di tredici anni e poi altri tre figli, un maschio, una femmina e poi ancora un maschio. Tutti erano distanziati di due anni l’uno dall’altro e tutti crescevano in modo normale. Oltre a questi gioielli che davano un’atmosfera gaia alla casa, i coniugi Matsumoto tenevano stretta come una perla ad un anello la loro figlioletta Yoiko di due anni. La bambina aveva una pelle bianca e trasparente come una perla ed occhi grandi e scuri come la lacca ed era caduta tra le braccia dei coniugi Matsumoto la sera prima della festa delle bambole.

Chiyoko tra i cinque prediligeva Yoiko, e tutte le volte che veniva a trovare la famiglia le portava qualche giocattolo. Una volta era stata perfino sgridata dalla zia per aver portato troppe cose dolci. Allora Chiyoko prendendo Yoiko in braccio con grande attenzione, uscì sulla veranda per far vedere alla zia come le due si volevano bene. E la zia ridendo: “guardate che poi finite per litigare”. E Matsumoto: “ma se quella bambina ti piace tanto te la regalo, così quando ti sposi te la porti dietro” e giù a ridere.

Anche quel giorno quando Chiyoko si sedette, subito Yoiko si mise a giocare con lei. Dalla nascita i capelli di Yoiko non erano mai stati tagliati e quindi erano molto lunghi, sottili e delicati. Era forse per il bianco della pelle che il colore dei capelli, quando questi erano colpiti dal sole, avevano un affascinante riflesso viola. “Yoiko, ti pettino i capelli”, disse Chiyoko e passò delicatamente il pettine nei capelli. Poi fece un codino dei radi capelli ed alla base ci mise un nastrino rosso. Essa spinse un capo del nastro andò fino al luogo in cui si trovava la madre. La madre si complimentò per come i capelli erano stati pettinati mentre Chiyoko sorrideva soddisfatta e poi diceva, guardando la bambina di spalle, “questa volta vai a farti vedere da papà”. Yoiko cominciò a camminare insicura in punta di piedi poi, giunta alla stanza di Matsumoto, cominciò a camminare a quattro gambe. Tutte le volte che la bambina voleva far l’inchino al padre, si metteva a quattro gambe. E così, anche questa volta, alzò il sederino più in alto che poteva, abbassò la testa di qualche centimetro dal pavimento e si mise a balbettare. Matsumoto abbandonò per un attimo le sue carte e chiese: “ma che bei capelli hai, chi te li ha aggiustati così?” e Yoiko, abbassando la testa si mise a squittire. Questo era il modo abituale di Yoiko, che non sapeva ancor bene muovere la lingua, per chiamare Chiyoko. Questa che stava alle spalle e guardava sentendo il proprio nome pronunciato dalla piccola boccuccia, si mise a ridere ad alta voce tutta contenta.

3.

In quel frattempo i bambini tornarono da scuola e nella casa che fino allora era stata dominata dal nastro rosso parvero aggiungersi improvvisamente altri colori. Il bambino che non aveva ancora compiuto sette anni ed andava all’asilo, era tornato portando con sé qualcosa che assomigliava ad un tamburo con sopra impresso lo stemma della famiglia. Se ne andò con Yoiko con la promessa di farle sentire come suonava. In quel momento Chiyoko guardava la figura che facevano le calze di lana tinte di rosso che si muovevano per il corridoio. Sulla punta di quelle calze c’erano dei batuffoli rotondi che ballavano di qua e di là mentre i piedini si muovevano.

“Sono sicuro che gliele hai fatto tu quelle calze”.

“Belle, vero?”

Chiyoko andò vicino allo zio e per un poco parlò con lui. Guardando la pioggia che cadeva dal cielo imbronciato, si vedevano le goccie di pioggia che cadevano dal banano. Come se si fossero messi d’accordo, Matsumoto e Chiyoko mentre guardavano le goccie di pioggia attraverso i vetri si scaldavano le mani sul braciere.

“Fa un rumore così forte perché c’è il banano.”

“Dura veramente tanto. Da un pò di tempo ogni giorno penso “oggi perde le foglie, oggi perde le foglie” ed invece le foglie continuano ad essere verdi. Le foglie di sasanqua non ci sono più, il platano è diventato nudo e lui invece continua come prima.”

“Da una strana sensazione. È per questo si dice che Tsunezoo è un uomo che ha del tempo da perdere”.

“Invece tuo padre neanche morto si mette a studiare il banano.”

Non lo vuole fare quello studio lì. Però lo zio è molto più erudito di papà. Io ne ho una grande ammirazione.”

“Non fare complimenti”.

“Ma l’ho detto per davvero! E poi, non è vero che ogni cosa che io chiedo tu mi sai rispondere?”

Mentre i due stavano così chiacchierando, venne la donna di servizio portando qualcosa che sembrava una lettera di raccomandazione e dicendo: “è arrivata quaesta persona”, gliela diede. E Matsumoto: “Chiyoko, aspetta. Poi ti insegno una cosa interessante”. Così dicendo se ne andò ridacchiando. E Chiyoko:

“Ah no! Mi fai di nuovo imparare a memoria un mucchio di nomi di sigarette straniere come l’altra volta”.

Matsumoto senza aggiungere altro si avviò verso la sala di attesa degli ospiti e Chiyoko verso la sala da tè. Qui per sopperire alla mancanza di luce dovuta alla giornata di pioggia, si era già accesa la luce elettrica. Nella cucina si erano già iniziati i preparativi della cena e due fiamme ardevano sul fornello a gas. Poco alla volta i bambini vennero a sedersi a due a due al tavolo. Yoiko invece abitualmente mangiava con la domestica ma quella sera Chiyoko ne prese il posto. Essa mise sul vassoio una tazza colorata di rosso e la carne di pesce che era in un piattino e condusse Yoiko nella vicina stanza di sei joo. Questa era una stanza molto usata per cambiarsi d’abito ed era fornita di due armadi ed uno specchio a misura d’uomo. Chiyoko mise davanti allo specchio il vassoio con su la tazza ed il piattino che sembravano giocattoli.

“Yoiko, stai brava, ed aspetta qui”.

Ogni volta che Chiyoko metteva in bocca la pappa che prendeva con un cucchiaio, Yoiko diceva che era buono, che ne voleva ancora e faceva mille moine. Alla fine disse che voleva mangiar da sola, prese il cucchiaio dalle mani di Chiyoko che con grande attenzione le insegnò come doveva fare a tenerlo in mano. Evidentemente Yoiko sapeva solo pronunciare delle parole molto brevi, e quando veniva rimproverata che non bisognava tenere in mano il cucchiaino così, piegava la testolina e chiedeva:

“Così? Così?”.

Questo piaceva molto a Chiyoko e mentre Yoiko continuava a ripetere, disse “Sempre così?”. E mentre Yoiko alzava i suoi occhioni verso Chiyoko, d’improvviso lasciò cadere il cucchiaio che teneva nella mano destra e scivolò a terra davanti alle ginocchia di Chiyoko.

“Cosa ti succede?”

Chiyoko senza penserci su due volte provò a sollevare Yoiko, ma questa stava rilassata come un bambino che dorme e non dava alcuna risposta. Allora Chiyoko improvvisamente cominciò a chiamare ad alta voce “Yoiko, Yoiko”.

4.

Yoiko era tenuta sulle ginocchia di Chiyoko ed aveva occhi e bocca semiaperti come se fosse immersa in un sonno profondo. Chiyoko provò a battere due o tre volte la schiena della bambina con il palmo della mano, ma senza risultato.

“Zia, è successa una cosa terribile, vieni per favore”.

La madre spaventata lasciò andare i bastoncini per mangiare e la tazza, per correre con gran rumore di piedi nella stanza. Mentre chiedeva “Cos’è successo?”, vide il capo rovesciato della bambina sotto la luce elettrica, con le labbra che già avevano un colore violaceo. Anche mettendo sulla bocca il palmo della mano non si sentiva il rumore del respiro. La madre lasciò sfuggire un respiro compresso, e fece portare dalla donna di servizio un asciugamano bagnato. Provarono a metterlo sulla fronte ed a Chiyoko sembrava che ci fosse la pulsazione, ma quando provò a sentire il polso, non sentì più nulla.

“Zia, cosa facciamo?” chiese Chiyoko tra le lacrime e con la faccia pallida. La mamma rivolta ai bambini che stavano in piedi senza parole attorno a lei, ordinò: “Presto, andate a chiamare papà. I bambini tutti e quattro corsero verso la stanza di ricevimento degli ospiti. Quando il rumore di passi si fermò all’estremità del corridoio, Matsumoto uscì dalla stanza con l’aria interrogativa. Mentre chiedeva:”Cos’è successo?”, vide Yoiko dietro la moglie e Chiyoko come se esse volessero nasconderla e di colpo aggrottò le sopracciglia.

“Il dottore…”.

Il dottore venne subito. Disse:”L’aspetto è un pò strano” e fece subito un’iniezione. Ma senza effetto. “Sarà tutto inutile?” fu la domanda che uscì dalle labbra serrate di Matsumoto. Poi gli occhi dei tre che esprimevano la paura che non ci fosse nulla da fare, si rivolseroo al medico. Questi si tolse gli occhiali, guardò la pupilla di Yoiko e poi, toltole il vestito, l’orifizio anale.

“Dopo aver visto questo, penso proprio che non ci sia più nulla da fare. La pupilla e l’ano sono aperti. Davvero non ho parole per esprimere il mio rincrescimento.”

Il dottore disse queste parole, ma provò ancora a fare un’iniezione nella zona cardiaca. Come l’altra, anche questa non ebbe nessun effetto. Quando vide l’ago della siringa penetrare nella pelle quasi trasparente della figlia, Matsumoto involontariamente strinse le ciglia. A Chiyoko invece le lacrime cadevano ininterrotte sulle ginocchia.

“Quale sarà la causa della malattia?”

“Mah, veramente strano. Ed oltre a questo sembra proprio non esserci altro da dire. Per quanto ci pensi…” disse il medico piegando leggermente il capo. “E se provassimo con un bagno di mostarda calda?” provò a chiedere Matsumoto con un’idea da inesperto. “Facciamo pure” disse subito il medico, ma sulla sua faccia non traspariva il benchè minimo cenno d’incoraggiamento.

Dopo un pò venne versata dell’acqua calda in un catino ed dentro si versò una busta di mostarda.

La madre e Chiyoko in silenzio spogliarono Yoiko. Il medico provò a mettere la mano nell’acqua calda e disse: “Mettiamo ancora un pò di acqua fredda. Se è troppo calda c’è pericolo di ustionare la bambina.”

Yoiko venne tenuta dal medico per cinque o sei minuti nell’acqua calda. I tre trattenevano il fiato e guardavano il delicato colore della pelle della bambina. “Adesso basta. A farne troppo…” disse il medico e subito tirò fuori Yoiko dal catino. La madre subito la prese, la asciugò delicatamente, le rimise il vestitino di prima, ma vedendo l’aspetto immutato di Yoiko disse: “Lasciamola riposare un pò” ed intanto guardava il viso di Matsumoto come per avere un’approvazione. Questi rispose che andava bene, ritornò alla stanza ed accompagnò l’ospite alla porta.

Per Yoiko vennero tirati fuori dall’armadio un piccolo futon ed un piccolo cuscino. E mentre Chiyoko contemplava la figurina di Yoiko di cui non si poteva pensar altro che era caduta nel sonno tranquillo della notte eterna, improvvisamente disse:

“Zia, ho fatto una cosa terribile…”.

“No, non è che sia stata tu a far qualcosa…”.

“Però ero io che le stavo dando la cena. Non so proprio come fare a chiedere perdono a te ed allo zio”.

Chiyoko ripetè più e più volte con parole sconnesse la descrizione dell’aspetto del tutto normale della bambina mentre lei la stava aiutando a mangiare. Matsumoto con le braccia piegate disse: “Ma è veramente incomprensibile”, e poi, rivolto alla moglie: “Ehi, Osen, mi dispiace vederla coricata qui, portiamola in quell’altra stanza”. Anche Chiyoko diede una mano.

5.

Non c’erano a disposizione dei ripari e quindi Yoiko venne coricata nel primo posto che sembrava adatto, con il capo rivolto a nord e senza nulla intorno. Osen mise vicino al cuscino il palloncino che era il giocattolo preferito della bambina, prendendolo dalla stanza da tè. Sul viso distesero un capo di cotone immacolato. Chiyoko di tanto in tanto si alzava, guardava e si metteva a piangere. “Guarda” disse ad un certo punto Osen rivolgendosi a Matsumoto, “la bambina sembra proprio avere la faccia della dea Kannon”. E Matsumoto: “Davvero?” ed intanto diede un sguardo alla bambina stando seduto alla sua sedia.

Alla fine furono preparati sul tavolo di legno grezzo anice cinese, un bastone d’incenso e dei confetti. E quando la fiamma della candela gettò la sua debole luce, i tre furono per la prima volta colpiti dal deprimente pensiero che ormai un’infinita distanza li separava da Yoiko i cui occhi non si sarebbero aperti mai più. Essi a turno alzavano il basto dell’incenso il cui profumo colpiva le narici di questi tre esseri che fino a due ore prima non avrebbero mai immaginato di finire in un m ondo così diverso. Gli altri bambini come sempre furono messi a letto presto e solo Sakiko la bambina più grande di tredici anni restò alzata e non si allontanò dal tavolo dell’incenso.

“Vai a dormire anche tu”

“Nessuno è ancora venuto da Uchisaiwaichoo e da Kanda”

“Fra un pò arrivano. Tu intanto vai a dormire”.

Sakiko se ne uscì verso il corridoio e giunta lì si voltò e fece un cenno a Chiyoko. Questa la raggiunse, e a voce bassa Sakiko chiese di accompagnarla alla toeletta perché aveva paura. Là infatti mancava la luce. Chiyoko accese allora con un fiammifero una lampada portatile ed insieme a Sakiko se ne andò per il corridoio. Al ritorno provò a sbirciare nella stanza della servitù: la donna che preparava il riso parlava a bassa voce con il conduttore di risciò tenendo il braciere tra le mani.

A Chiyoko sembrò che parlassero dell’infausto destino di Yoiko. Il resto della servitù stava nella sala da tè a fare i preparativi per l’arrivo degli ospiti.

Dei parenti che avevano ricevuto la notizia vennero due o tre, ma se ne andarono subito, dicendo che sarebbero tornati. A tutti quelli che venivano Chiyoko raccontava sempre come era avvenuta la morte improvvisa di Yoiko. Dopo le undici Osen si mise a preparare una stufetta da mettere nella stanza per quelli che avessero passato la notte, ma non servì poi a nessuno perché per primi Matsumoto e la moglie andarono a letto. Dopo Chiyoko andò più e più volte a rinnovare il bastoncino d’incenso che era diventato corto. La pioggia non aveva ancora cessato di cadere. La sera invece di sentire il risuonare del banano, si sentivano le goccie d’acqua sul tetto di latta e quel suono si trasmetteva incessantemente alle orecchie di Chiyoko procurandole infinita solitudine e tristezza. La notte passò così in mezzo a questa pioggia con Chiyoko che ogni tanto sollevava il panno bianco posto sul viso e si metteva a piangere.

Quel giorno le donne tutte insieme cucirono uno scialle per Yoiko. Momoyoko venne di nuovo da Uchisaiwaichoo ed insieme a lei due donne di famiglie amiche. Chiyoko girava con carta e pennello e faceva scrivere a tutti i sei ideogrammi di Amu Namida Butsu.

“Signo Ichi, scrivetelo anche voi per Yoiko” disse Chiyoko presentandosi davanti a Sunaga.

“Come si fa?” disse questi ed inaspettatamente prese carta e pennello.

“Scrivete su tutto il foglio, perché con questi pennelli si può scrivere abbastanza fine. Poi li taglieremo a strisce a sei ideogrammi per volta e li metteremo dentro la bara.”

Tutti compunti si misero a scrivere i sei ideogrammi della giaculatoria. Sakiko scrisse tutto storto facendosi riparo con la manica perché gli altri non vedessero. Suo fratello minore di 11 anni scrisse Namu Amida Butsu in modo alfabetico quasi fosse un telegramma. Nel pomeriggio venne finalmente il tempo di introdurre la bambina nella bara e Matsumoto disse :”tu cambiale il vestitino” Chiyoko non disse una parola e tra le lacrime spogliò ed alzò il corpo freddo di Yoiko. Nella schiena vi erano moltissime macchioline violacee. Cambiato il vestitino, Osen le mise un piccolo rosario tra le mani. Così pure venne messo nella bara un piccolo ombrello di tela ed un paio di sandali di paglia. Vennero anche messe le calze di lana rossa che Yoiko indossava la sera prima, e subito a Chiyoko comparve l’immagine dei batuffoli rotondi cuciti in cima alle calze che sbattevano qua e là mentre la bambina camminava. Tutti i giocattoli che le erano stati portati vennero messi vicini al capo o ai piedi. In fine vennero gettate a pioggia le striscie di carta con su scritto Namu Amida Butsu, fu chiuso il coperchio e sopra venne messo un tessuto di raso.

6.

Il funerale venne rimandato di un giorno perché Osen disse che il giorno non era fausto. Così per un’altra giornata la casa restò molto affollata in mezzo ad un’atmosfera malinconica. Il bambino di sette anni di nome Kakichi si mise a suonare il suo tamburo e dopo essere stato abbondantemente sgridato venne a sedersi vicino a Chiyoko e le chiese: Ormai Yoiko non tornerà più, vero?” Sunaga lì vicino si intromise e ridendo disse: “Domani andiamo al crematoio e così cremiamo anche te oltre a Yoiko”, al che lui rispose che non voleva assolutamente e guardò Sunaga con gli occhi spalancati. Anche Sakiko chiese insistentemente di poter partecipare alla cerimonia funebre del giorno dopo. E lo stesso fece la bambina Shigeko di nove anni. Osen, come se finalmente avesse preso una decisione, chiamò il marito che stava parlando con i Taguchi

“Domani vai al funerale?”

“Ci vado sì, ed anche tu sarebbe bene che ci andassi.”

“Sì ci vado. E che cosa mettiamo addosso ai bambini?”

“Il vestito con lo stemma della famiglia?”

Ma il disegno non è un pò troppo allegro?”

“Basta che indossino il vestito a pieghe. Per i maschi va bene il vestito alla marinara. Tu porterai un segno nero. Avrai bene una cintura nera?”

“Sì ce l’ho”

“Chiyoko, se ce l’hai, metti un vestito da lutto e vieni con noi.”

Dopo aver detto questo Matsumoto si ritirò all’interno della casa. Anche Chiyoko andò a tirare su il bastoncino d’incenso. Sulla bara c’era adesso una bella ghirlanda di fiori. “Quand’è arrivata?” chiese Chiyoko alla sorella Momoyoko che stava lì vicino. Ed essa a bassa voce:”Prima la mamma è venuta a cambiare i fiori, dicendo che solo con i fiori bianchi era troppo spoglio, trattandosi di una bambina e così ha voluto mettere dei fiori rossi.” Le due sorelle per un pò rimasero sedute davavnti alla bara, poi Chiyoko disse in un orecchio alla sorella: “Momoyoko, hai visto il viso di Yoiko” ed essa annuì.

“Quando?”

“Prima, quando è stata messa nella bara. perché?”

Chiyoko se n’era dimenticata. Se la sorella le avesse detto che non l’aveva visto, essa pensava di aprire in sieme il coperchio della bara per vederlo ancora una volta.

“No, non farlo. Ho paura” disse Momoyoko scuotendo il capo.

La sera venne il bonzo per la recita delle preghiere. Chiyoko stava lì vicino a sentire, quando Matsumoto prese il bonzo per l’abito e gli fece strani discorsi come “Come sono i tre canoni buddhisti” e “Com’è la traduzione giapponese dei canoni”. Nelle sue parole venivano fuori i nomi dei santi buddhisti Shinran Rennyo. Giunte le dieci di sera, Matsumoto mise davanti al bonzo il dolce e l’offerta e lo congedò dicendo che poteva bastare. Dopo che il bonzo se ne fu andato, Osen chiese il motivo di questo veloce congedo. “Il bonzo se ne poteva benissimo andare via prima di aver finito. A Yoiko non piacciono le preghiere buddhiste”, si spiegò. Chiyoko e Momoyoko che erano lì vicino sorrisero.

Il giorno dopo era una chiara giornata senza vento. La piccola bara venne portata via lentamente. Le persone per la strada accompagnavano con gli occhi il corteo ed avevano una faccia stupita. Matsumoto fece mettere la bara di Yoiko sul carro funebre dicendo che non gli piacevano le lanterne di carta bianca ed i palanchini di legno grezzo. Tutte le volte che la tenda nera che correva intorno al carro funebre si muoveva, si intravvedeva la corono di fiori posta sul tappetino di raso che copriva la bara. Dei bambini che stavano giocando lì intorno corsero stupiti a vedere cosa c’era dentro la vettura. Ci furono anche persone che si scoprirono il capo al passaggio dl carro funebre.

Al tempio, finirono anche le letture dei testi buddhisti e fu bruciato l’incenso secondo le regole. Memtre Chiyoko stava seduta nell’ampia sala del tempio, stranamente non ebbe una lacrima. Anche padre e madre non davano l’impressione, a giudicare dal loro viso, di essere addolorati. Al momento di bruciare l’incenso, Shigeko ne prese un pò e per sbaglio lo gettò dietro al braciere. Poi prese un pò di cenere, la buttò insieme alla polvere d’incenso e si mise a ridere. Finita la cerimonia Matsumoto e Sunaga con qualche altra persona andarono al crematoio, mentre Chiyoko e le altre persone tornarono a casa. Sulla vettura, più che la sensazione che provava in quel momento di diminuito dolore, lo stato d’animo di pena che rasentava il dolore fisico che aveva provato durante i due giorni precedenti le dava consolazione.

7.

A raccogliere le ceneri andarono in quattro, Osen, Sunaga, Chiyoko e Kiyo, la governante che in genere si occupava di Yoiko. Chiyoko era la prima volta che andava al crematoio, ma era contenta di vedere il panorama della periferia come se avesse ritrovato un oggetto smarrito. Si vedevano verdi campi di cereali e di rape ed in mezzo a boschi di pini si mescolavano il rosso il giallo ed il marrone di altre piante. Sunaga che stava davanti agli altri, si voltava ogni tanto ad indicare a Chiyoko i nomi dei vari boschi: Anahachiman, Suwa ecc. Quando la vettura arrivò ad una collinetta con un lieve declivio, egli indicò con un dito a Chiyoko la lunga e stretta torre che si trovava in mezzo ad un boschetto di cedri. Sotto alla torre vi era un pozzo artesiano nascosto da un cespuglio di bambù bassi e vi era un piccolo bar vicino al basamento di un ponte che dava un’aria molto camoagnola a tutto l’ambiente. Piccole foglioline di colore diverso cadevano una alla volta dai grandi alberi. La danza di queste foglie nell’aria colpì Chiyoko che si mise a pensare che queste avrebbero potuto indefinitamente danzare nell’aria senza mai cadere al suolo.

L’edificio era stato costruito su un terreno piano ed era rivolto verso il sud e quando la vettura venne fatta entrare dentro al portone, un’ombra allegra colpì il petto di Chiyoko. Osen andò davanti all’ufficio e disse “Sono Matsumoto” e l’uomo che stava seduto dietro allo sportello quasi fosse un ufficio postale, disse: “Avete la chiave, no?” Al che Osen con una strana faccia si mise a cercare improvvisamente tra le tasche e la cintura del kimono.

“L’ho fatta grossa. Ho posato la chiave sopra il cassettone della stanza da tè…”

“Non l’hai portata? Che guaio. Mah, visto che c’è ancora tempo, mandiamo Ichi di corsa a prenderla.”

Sunaga che stava di spalle ad ascoltare il discorso, s’intromise: “Se è la chiave che volete, io ce l’ho” e tirò fuori dalle maniche una cosa fredda e pesante e la diede alla madre di Yoiko. E mentre Osen la mostrava allo sportello Chiyoko rimproverò Sunaga.

“Sig. Ichi, Lei è veramente odioso. Se aveva la chiave che cosa Le costava a tirarla fuori subito. Non bisogna dimenticare che la mamma è ancora sconvolta per quanto è successo a Yoiko.”

Sunaga stette lì semplicemente a sorridere.

“Una persona insensibile come Lei è meglio che non si faccia vedere in un’occasione così. Yoiko è morta ed io non l’ho vista versare una lacrima.”

“non sono insensibile, ma dal momento che non ho ancora figli, non sono in grado di capire l’amore tra genitori e figli.”

“Mah, ha un bel coraggio a dire queste cose indifferenti davanti alla mamma. Ed io, quand’è che ho avuto dei figli?”

“Se li hai non lo so. Ma tu sei una donna ed hai quindi un cuore molto più sensibile di un uomo.”

Osen sbrigò le varie pratiche con l’aria di chi non sente la discussione dei due e poi se ne andò nella sala d’attesa. Là si sedette epoi fece un cenno a Chiyoko che stava in piedi. Essa venne subito e poco dopo la raggiunse Sunaga che andò a sedersi di fronte ad esse. Poi chiese a Kiyo di sedersi accanto a lui.

Mentre i quattro aspettavano bevendo il tè, si videro due o tre gruppi di persone che erano venute a ritirare le ceneri. La prima a vedersi fu una donna anziana che aveva l’aria diessere appena giunta dalla campagna e che guardava con invidia i vestiti di Osen e di Chiyoko. Poi una donna con il bambino legato sulla schiena. Ad alta voce chiese: “Datemi un’urna!” e compero quella più a buon mercato da sedici sen. Poi arrivarono un uomo con i capelli legati con un nastro accompagnato da una donna ambedue ciechi e che erano guidati da una bambina con un vestito viola. L’uomo disse “Abbiamo ancora tempo”, tirò fuori dalla manica tabacco e carta e cominciò a fumare. Sunaga guardò il viso dei ciechi ed uscì all’esterno senza più tornare. Nel frattempo arrivò una persona dell’ufficio dicendo che era tutto pronto e quindi Chiyoko uscì a chiamare Sunaga.

8.

Uscendo si vedevano a destra ed a sinistra due file di urne con attaccate delle etichette di ottone con su scritto il nome. In un angolo del piazzale c’era un gran mucchio di legna di pino. Tutt’intorno c’erano cespugli verdi di bambù. Di sotto si vedevano i campi di cereali e dall’altra parte c’era una fila ininterrotta di collinette. La vista a nord era particolarmente serena.

Sunaga stava da un lato del piazzale e guardava distratto l’ampia visuale.

“Sig. Ichi, i preparativi sono terminati.”

Sunaga udì la voce di Chiyoko e senza dir nulla ritornò nella sala d’attesa. Lì disse: “questi cespugli di bambù sono molto belli. Sembra quasi che i corpi dei morti, diventati concime, li facciano crescere di più. Le radici di bambù di questo posto devono essere molto gustose. E chiyoko: “ma basta!” e ritornò subito tra le file di urne. Quella di chiyoko era molto bella e davanti alla porticina aveva appeso un drappo viola. La corona di fiori del giorno prima, già un pò appassita, stava appoggiata sul piano. Chiyoko si sentì mancare il fiato al pensiero che questo era dovuto all’effetto del calore che la sera prima aveva bruciato la carne di Yoiko. Comparvero tre bonzi. Il più anziano disse: “il sigillo…” al che Sunaga: “va bene, aprite pure”. Il bonzo allora ruppe il sigillo con le sue mani ed aprì il lucchetto. Aperta la porta, nell’interno tutto scuro si vedevano indistintamente delle cose rotonde color cenere, delle cose nere e bianche, il tutto informe. Il bonzo disse:”adesso tiriamo fuori le ceneri” ed improvvisamente, davanti agli occhi dei quattro famigliari vennero tirati fuori i resti informi con una specie di anello di ferro. Al che Chiyoko mise davanti alla bocca un fazzoletto, vedendo che il teschio di Yoiko aveva lo stesso aspetto di quando la bambina era in vita. Il bonzo, messi da parte il teschio, le ossa della guancia e due o tre ossa più grosse, disse: “facciamo una cernita delle altre e poi andiamo”.

I quattro usando un bastone ciascuno, presero le varie ossa sul tavolo e le misero in un’urna bianca. Poi, come se fossero d’accordo, si misero a piangere. Solo Sunaga con la faccia pallida, rimase a bocca chiusa e non tirò su con il naso. “I denti, li mettiamo da parte?” chiese il bonzo e li mise in un’altra urna. Sunaga che lo aveva visto tirarne fuori due o tre dalle mascelle rotte, osservò: “In questo stato, proprio non si direbbe un essere umano. Sembra di cercare dei sassi nella sabbia”. Intanto la governante lasciava cadere lacrime ininterrotte sul pavimento. Osen e Chiyoko misero il bastone da una parte e portarono il fazzoletto al viso.

Quando salirono sulla vettura Chiyoko tenne stretta sulle ginocchia la cassetta di legno di pino contenente l’urna. La vettura partì ed un vento freddo soffiò tra la coperta e la cassetta di pino. Ai lati della strada correvano due file di alberi di zelkova le cui foglie strette si agitavano quando la vettura passava accanto. E sebbene queste foglie strette si unissero sopra le loro teste, il posto in cui la vettura passava era incredibilmente chiaro. Chiyoko di tanto in tanto alzava il capo e guardava il cielo lontano. Giunti a casa posero i resti mortali di Yoiko davanti all’altarino buddhista. I bambini volevano che si aprisse l’urna per vedere le ossa, ma Chiyoko oppose un netto rifiuto.

Poi tutti si diressero verso la sala da pranzo per la cena. “A guardar bene, di bambini ce ne sono ancora tanti, però oggi uno manca” osservò Sunaga.

“Finchè era in vita non si notava, ma ora che non c’è più è quella che più ci manca. Mi vien da pensare che qualcuno in mezzo ai presenti ne avrebbe dovuto prendere il posto” disse Matsumoto.

“Che cosa brutta” sussurrò Shigeko a Sakiko.

“Mamma, fai uno sforzo e prepara di nuovo una bambina come Yoiko. Le vorremo tutti bene.”

Deve essere eguale a Yoiko. Deve essere come Yoiko. Non possiamo dimenticarla.”

“A me è venuto di detestare quelli che mi vengono a trovare in un giorno di pioggia con una lettera di raccomandazione.”

A.4 TESTI ORIGINALI

(da aggiungere)

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[1] Blyth, R. H.: Zen in English literature and oriental classics, Hokuseido Press, Tokyo, 1971

[2] Scalise, Mario: Letteratura minore in Giappone, Milano, 1966, p.15

[3] Muccioli, Marcello: Lo shintoismo – Religione nazionale del Giappone, Istituto editoriale Galileo, Milano, 1948

[4] Ren, Jiyu: Han-Tang Fojiao sixiang lunji, Renmin Chufan She, Beijin, 1974, pp. 127-194

[5] Nukariya, Kaiten: The religion of the Samurai, Luzac and Co., London, 1973

[6] Bugnone, Anna – Chiariglione, Leonardo: Haiku, Torino Arte, Settembre 1977, p. 2

[7] Suzuki, Susumu: Buson to haiga, Shoogakukan, Tokyo, 1976

[8] Sadler, A. L.: Cha-no-yu – The japanese tea ceremony, Tuttle, Tokyo, 1977

[9] Chiariglione, Leonardo: Kinkakuji, Torino Arte, giugno 1976, p. 4

[10] Oota, Hirotaroo – Matsushita, Ryuushoo – Tanaka, Seidai: Zenji to sekitei, Shoogakukan, Tokyo, 1976

[11] Takarazuki, Keigo – Fujiki, Kunihiko: Nihonshi, Degawa Shuppansha, Tokyo, 1973, p.152

[12] Hibbett, Howard S.: Natsume Sooseki and the psychological novel, in Shively, D. H. (ed.): Tradition and Modernization in Japanese Culture, Princeton University Press, 1971, pp 315-316

[13] Sooseki Zenshuu Kankookai (ed.): Sooseki Zenshuu, Tokyo, 1928, XII, 416-418

[14] Vedi Introduzione a “Natsume Sooseki: Ten nights of dream – Hearing Things – The heredity of taste” di Itoo, Aiko – Wilson, Graeme, Tuttle, Tokyo, 1974, p. 10

[15] McClellan, Edwin: Two Japanese novelists: Sooseki and Toson, Tokyo, Tuttle, 1971,pp. 6-7

[16] Shimoda, Kazushi – Noguchi, Takehiko – Yamazaki, Tadakazu – Ino, Kenji: Kindai Bungaku: Sakka to sono sekai – 1, Asahi Shinbunsha, Tokyo, 1975, p. 227 e segg.

[17] McClellan, Edwin: An introduction to Sooseki, Harvard Journal of Asiatic Studies, 22, 1959, p. 156

[18] Sooseki Zenshuu Kankookai (ed.): Sooseki Zenshuu, Op. Cit., xi, 10

[19] McClellan, Edwin: An introduction to Sooseki, op. cit., p. 162

[20] Sooseki Zenshuu Kankookai (ed.): Sooseki Zenshuu, op. cit., xx, 422-423

[21] Natsume, Kyooko: Sooseki no omoide, Kaizoosha ,1928, p.132

[22] Sooseki Zenshuu Kankookai (ed.): Sooseki Zenshuu, op. cit.; XIV, 373

[23] Natsume, Kyooko: Sooseki no omoide op. cit. p.106

[24] Hibbett, Howard S.: Natsume Sooseki and the psychological novel, op. cit., p. 322

[25] Sooseki zenshuu Kankookai (ed.): Sooseki Zenshuu, op. cit.; XIV,403

[26] Vedi: A guide to Japanese reference and research materials, 294 Hotogisu

[27] Hibbett, Howard S.: Natsume Sooseki and the psychological novel op. cit., p. 312

[28] Vedi introduzione a “Natsume Sooseki: Ten nights of dream – hearing things – the heredity of taste” di Itoo, Aiko eWwilson, Graeme, op. cit., p. 19

[29] ibid., p. 20

[30] Fitzgerald, C. P.: A concise history of East Asia, Heinemann, Hong Kong, 1966, p.166

[31] Beonio Brocchieri, Paolo – Boscaro, Adriana: Storia del Giappone e della Corea, Marzorati, Milano, 1974, p. 142

[32] Beasley, W. G.: Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1969, p. 126

[33] Storry, Richard: A history of modern Japan, Penguin Books, London, 1969, p. 123

[34] Ibid., p. 119

[35] Anesaki, Masaharu: History of Japanese religion, tuttle, tokyo, 1971, p. 375

[36] Ibid., p.376

[37] Scalise, Mario: Romanzieri giapponesi moderni, Milano, 1966, p.4

[38] Ibid., p. 10

[39] Mcclellan, Edwin: Two japanese Novelists – Sooseki and Toson, op. Cit., pp. 26-27

[40] Sooseki Zenshuu Kankookai (ed.): Sooseki Zenshuu, op. cit., XVIII\, 388-398

[41] Natsume, Sooseki: Mon, translated by Mathy, Francis, Tuttle, Tokyo, 1975, p. 213

[42] Kitagaki, Ryuuichi: Sooseki no seishin bunseki, Kitagawa shoten, Tokyo, 1976

[43] Natsume, Sooseki: The wayfarer, translated by Yu, Beong Cheong, Tuttle, Tokyo, 1977, p. 284

[44] Ibid., p. 285

[45] Viglielmo, Valdo H.: An introduction to the later novels of Natsume Sooseki, Monumenta Nipponica, XIX, 1/2, 1964, p.

[46] Natsume , Sooseki: Three-cornered world, Tuttle, Tokyo, 1974, p. 12

[47] ibid. P. 18

[48] Blyth, R. H.: Zen in English literature and oriental classics, Hokuseidoo Press, Tokyo, 1971, p.29

[49] ibid. p. 39

[50] Martins, Janeira Armando: Japanese and Western Literature – A comparative study, Tokyo, Tuttle, 1970, p. 39

[51] Bowra, C.M.: The herit of symbolism

[52]

[53] Vedi anche Blyth, R. H.: Zen in English literature and oriental classics, op. cit., p. 61

[54] Milinda Panha, ii,1,1 in Oscar Botto: Il buddhismo, Istituto Editoriale Galileo, Milano, 1959, p. 35

[55] Dal Tao-te-ching in: Testi tradotti da Flavio Tomasini, UTET, Torino, 1977, p.51

[56] Ibid., p. 76

[57] Suzuki, D. T.: Essays in Zen Buddhism, Rider and Co., London, 1974, vol. Ii, p. 36

[58] Martins, Janeira Armando: Japanese and Western Literature – A comparative study, op. cit., p. 45

[59] Muccioli, Marcello: La letteratura giapponese, op. cit., p. 273

[60] Natsume, Sooseki: The three-cornered world, op. cit., p. 66-67

[61] Muccioli, Marcello: La letteratura giapponese, op. cit., p. 397

[62] Okubo, Jun’ichiroo: Sooseki to sono shisoo, Aratake Shuppan, Tokyo, 1974, p. 216

[63] Ibid., p. 214 e segg.

[64] Kitagaki, Ryuuichi: Sooseki no seishin bunseki, op. cit., p. 323

[65] Ibid., p. 321

[66] Natsume, Sooseki: Mon, translated by Mathy, Francis, Tuttle, Tokyo, 1975,p.

[67] McClellan, Edwin: An introduction to Sooseki, op. cit., pp. 150-207

[68] Biddle, William W.: The authenticity of Natsume Sooseki, Monumenta Nipponica, XXVIII, 4, 1973, pp. 391-426

[69] Viglielmo, Valdo H.: An introduction to the later novels of Natsume Sooseki, Monumenta Nipponica XIX, 1/2, 1964, pp.1-37

[70] Yoshikawa, Koojiroo: Sooseki Shichuu, Iwanami shinchoo-640, Tokyo, 1977. Vedine anche un commento in:

Natsume, Sooseki: Light and darkness, translated by Viglielmo, Valdo H., Tuttle, Tokyo, 1977, p.

[71] Ibid. pp. 179-180

[72] Ibid. pp. 206-207

[73] Natsume, Sooseki: The wayfarer, op. cit., p. 229

[74] Ibid., p. 300

[75] Ibid., p. 287

[76] Ibid., p. 289

[77] Ibid., p. 289

[78] Ibid., p. 286

[79] Ibid., p. 305

[80] Ibid., p. 306

[81] Ibid., p. 297

[82] Lieh-tzu in Testi Taoisti, tradotti da Fausto Tommasini, op. cit., p. 59

[83] Watts, Alan W.: La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 102

[84] Ibid., p. 307

[85] Ibid., p.311

[86] Ibid., p. 313

[87] In Yu, Beong Cheong: Natsume Sooseki, Twayne, New York, 1969

[88] Natsume, Sooseki: Light and darkness, op. cit., p. 366

[89] Ibid., p. 367

[90] Ibid., p. 367

[91] Anesaki, Masaharu: History of Japanese religion, op. cit., p. 74

[92] Etoo, Jun: Natsume Sooseki – A Japanese Meiji intellectual, American Scholar, 34, 4, 1965, pp. 607

[93] Biddle, William W.: The authenticity of Natsume Sooseki, Monumenta Nipponica, XXVIII, 4, 1973, pp. 391-426

[94] Viglielmo, Valdo H.: An introduction to the later novels of Natsume Sooseki, op. cit., p. 8

[95] Ibid., p. 16

[96] Yoshikawa, Koojiroo: Sooseki shichuu, op. cit., pp. 205-206